Lo zolfo |
Le luminarie natalizie, che come una sguaiata ragnatela imprigionavano le vie del centro, erano per noi un richiamo irresistibile per uscire da casa, per assaporare nel buio di un pomeriggio divenuto già sera, quella voglia di euforia che si agitava nelle nostre menti. Euforia senza censure che comandava i nostri animi ancora condizionati dagli entusiasmi di un'infanzia non del tutto conclusa. Così percorrevamo i marciapiedi di via Torino, con le loro vetrine che vendevano festa e le macchie verdi dei tram che si muovevano impacciate sui loro binari. Non conoscevamo ancora il sapore amaro della diffidenza, del distacco malinconico, della non partecipazione che l'austero lessico dell'esperienza avrebbe alla fine imposto ai nostri sentimenti. Si camminava spediti verso il centro della città dove più forte era il richiamo delle luci e dei rumori, incuranti di quell'aria pesante, ostile, di quella nebbia pigra, tanto densa da invischiare anche i nostri pensieri. Come un mastice colava giù dal cielo, dilagava nelle vie e da esse risaliva nuovamente verso l'alto, sommergendo ogni cosa. Nebbia che era una sostanza viva, capace di una volontà autonoma, con le sue forme sfuggenti con il suo alito puzzolente. Nebbia sporca che ti si appiccicava addosso lasciando sui cappotti, sul colletto e sui polsi della camicia, sulle sciarpe e i cappelli, nelle narici e dentro la gola, la traccia immonda del suo contatto. Una fuliggine scura, untuosa, una firma nerastra della sua presenza dentro i fazzoletti; un gas acido che ti assediava la gola che arroventava l'aria che scendeva nei bronchi, che faceva piangere gli occhi ad ogni battito di palpebre. Intorno, implacabile, aleggiava la puzza di zolfo, malevola e insistente come una mosca sulla pelle sudata. Ma a noi poco importava. Nulla poteva quell'aria difficile davanti alle vetrine che esplodevano luce, sfacciate ed ammiccanti come giovani puttane che stavano lì, svergognate e maliziose a mostrare le proprie grazie vestite a festa. Poche ore, per poi rientrare verso le nostre periferie, lungo strade i cui negozi si facevano più radi, dove il pudore rendeva le loro vetrine più umili, dove l'attesa del Natale si consumava tra la luce fioca dei lampioni e il traffico sempre più rarefatto. Così era la periferia, con le sue regole austere, distaccata dalle lusinghe di un centro città troppo sfavillante le cui luci ostentavano un ottimismo che era pura invenzione. Così erano le nostre case, discreti rifugi di una collaudata intimità che si perpetuava sotto la lampada di una scrivania ingombra delle nostre cose, dove una radio contendeva al silenzio la voce gracchiante di un sommesso giornale radio.
Ma quell'odore di
zolfo no, non ti lasciava mai, dentro le strade poco illuminate, tra le
case del quartiere, nell'ascensore, dentro i pensieri e nella gola,
costretta a ripetere con voce roca il cantico delle creature per la
lezione del giorno dopo. 1 aprile 2010 |