Le nebulizzazioni

La stanza per le nebulizzazioni era un piccolo locale confinato in un'ala remota della scuola.

Da esso, due finestroni osservavano i rami degli ippocastani contorcersi nel rigore maestoso dell'inverno. Vi si arrivava al termine di un lungo corridoio il cui soffitto si allungava verso l'alto confondendosi col bianco dell'ultima mano di pittura.

Sulle quattro pareti correva una teoria di attaccapanni interrotta soltanto dalla porta e dalle due finestre. Parallelamente ad essa, ma ben discosta dai muri, la fila delle panche si racchiudeva in un quadrilatero perfetto; una cornice che dava enfasi al rigore di quel piccolo universo simmetrico, sprofondato nell'intimità di un pigro tepore.

Vi si entrava a gruppi di una classe per volta, sfiorando il pavimento di linoleum con la cautela di un sorriso incerto tra la curiosità ed il mistero.
"Bambini, adesso spogliatevi di tutto quanto avete addosso, restando soltanto con i calzini, la maglietta e le mutandine. I panni posateli sugli attaccapanni che avete dietro le spalle, dopodiché sedetevi sulle panche ed aspettate in silenzio".

Portavano appesi, quegli attaccapanni, le schiere multicolori dei nostri abiti. Abiti modesti, testimoni di quegli anni che, pur lontani dalle paure di una guerra ormai sfamata, non avevano ancora il coraggio di alzare il capo verso un futuro più prodigo.

Pantaloni, maglioncini, camicie, portavano con dignità i rammendi che le mani ruvide di giovani madri vi avevano eseguito. Le muoveva la speranza che quel futuro tanto atteso le avrebbe alla fine compensate per la pazienza e per gli occhi consumati sopra quei tessuti ormai sfiniti.

I nostri sguardi di meraviglia rimbalzavano tra le pareti della stanza nella vana ricerca di qualche segno di riconosciuta familiarità ma nulla, proprio nulla rispondeva ai nostri richiami con l'amicizia delle cose note. La simmetria era la sola padrona, custode di quell'ambiente disadorno, dove soltanto i bisbigli sottovoce rompevano l'incanto di un silenzio sepolto nel cuore dell'inverno.

Pur nell'aria intiepidita dai grossi termosifoni, i nostri corpi erano attraversati dai sottili brividi che l'emozione per il mistero che aleggiava intorno suscitava nella nostra immaginazione.

L'apparecchio per la nebulizzazione era posto nel centro esatto della stanza, equidistante da porte, finestre pareti e panche. Anch'esso contribuiva ad ossequiare quella necessità di simmetria che rendeva quell'aula così diversa da tutte le altre. La macchina era un alto totem, una bizzarra pagoda fatta di lamiere smaltate e bacinelle capovolte. Tutta la sua superficie era ricoperta da una patina biancastra, spessa. L'idolo saliva su verso il soffitto con la fatica di una metamorfosi che lentamente lo trasformava in una stalagmite di altre ere geologiche.

"Bambini, ora accenderemo la macchina e la nebbia che essa spanderà intorno la dovete inspirare col naso ed espirare con la bocca, lentamente, molto lentamente". Il vecchio Moloc rivestito delle sue croste scabre, ora si era messo a parlare. La sua voce era un brontolio profondo, una monotona vibrazione: dai suoi pori fuoriusciva una fumosità opaca e spessa che scendeva su di noi lenta e inesorabile come la neve.

Noi bambini seguivamo gli ordini con tutta la diligenza che la maestra ci aveva raccomandato, forti delle assicurazioni che quel fumo silenzioso ci avrebbe preservato da tutte le malattie dell'inverno. Inspirare, espirare, inspirare espirare, avanti con quel pulsare ipnotico, preludio ai sonni delle nostre notti; un rito arcano al quale noi partecipavamo con la sorpresa e l'incanto dei giovani novizi.

Là in mezzo, la macchina vibrava nella monotonia del suo pulsare, mentre la nebbia miracolosa aveva ormai saturato tutta la stanza. Nebbia e silenzio, luce soffusa e foschia che, sempre più densa, fagocitava nelle sue ombre opache i nostri corpi sperduti nel bianco. Entrava nelle narici un odore indefinito a mezzo tra la nebbia che al calare del buio avanza lentamente verso le prime case di periferia ed il sentore della polvere sollevata da un lontano vento di marzo.

Non ho più risentito quell'odore, ma nelle narici della memoria esso è ancora li, fragrante ed insinuoso, pronto a ricordarmi tutti i raffreddori, le influenze e le bronchiti scagliatemi contro dal vecchio totem tutte le volte in cui l'ho rinnegato per un'indegna pasticca di aspirina.

1 aprile 2010