PICCOLE MOTO
Oggi
voglio ricordare, rendendo loro giustizia, tutte le piccole motociclette,
utilitarie di allora, sfruttate, maltrattate, sempre sovraccariche, sempre
all'aperto, poco olio, benzina normale, camere d'aria devastate da cento
forature. Moto sempre stanche, senza futuro, destinate irrimediabilmente
alla rottamazione ed all'oblio. Voglio ricordare anche i loro padroni,
dispotici insensibili, abbrutiti da una vita che li rende simili alle loro
moto, accomunati dallo stesso destino.
1)
Ero un bambino, incontravo spesso sulla strada che mi conduceva a scuola,
una piccola Laverda, poco più di un ciclomotore, ruotine strette
strette, un color amaranto scuro, la scritta sul serbatoio piccola, bianca
in un anonimo stampatello; tutto concorreva a sminuirla, quasi si
vergognasse di esistere. Solo la targa debordava burocraticamente dalla
esile sagoma, a rimarcarne il rachitismo. Veniva soffocata dalla pinguedine
del suo proprietario: un gigantesco omone, sempre in tuta blu da meccanico,
forse sempre quella. La sua massa nascondeva buona parte della moto. Lei
arrancava a fatica lungo la strada lastricata. Il molleggio a fondo corsa ed
il telaio scosso da terribili fremiti, ma non mancava mai all'appuntamento
mattutino. Al limite della sopportazione, un mattino piovoso non ne poté
più: mise le ruote all'interno della gola del binario del tram; un fulmineo
guizzo, il grassone in terra da una parte, dolorante ed esterrefatto. Dal
lato opposto della strada lei, il motore spento e le ruote che giravano
ancora. Un sottile rivolo di benzina scorreva dal suo corpo e si allargava
in una piccola pozza. Poi furono bestemmie, calci, e furiose spedivellate.
Ripartì. Inutile e disperata ribellione!. La rividi ancora il mattino dopo:
nulla era cambiato. Ora portava con dignità una novella ed infamante
reinterpretazione della sua marca. Il grassone, trasformando con due
trattini la vi in emme, le aveva indelebilmente ricordato che a lui non ci
si ribella, mai!
2)
Le case di ringhiera avevano
una prerogativa unica: raccoglievano al loro interno tutto il campionario
della varia umanità. Vi convivevano puttane e ragazze da marito, vigili e
ladri, lavoratori e sfaccendati, eppure non succedeva mai niente. Per un
tacito accordo esse erano considerate zone franche. Ognuno i propri affari
li faceva da un'altra parte.
Il "Moscardin" era parte di una di queste comunità alla quale anch'io,
seppur ancora piccolo, già appartenevo. Possedeva un piccolo scooter: un
Parilla con molta lamiera e poche ossa, di un timido ma primaverile verdino.
Non lavorava, questo è certo; arrivava in cortile in qualsiasi ora del
giorno e della notte. La moto sul cavalletto, a ridosso del muro, poche ore
in casa e poi via di nuovo, chissà dove.
Arrivò un giorno alla guida di una sontuosa Lancia Aurelia. Noi bambini, col
naso appiccicato ai vetri, ad esplorarne l'interno di accogliente velluto, e
quel contachilometri che arrivava fino a centottanta!. In quei giorni il
Parillino restò disoccupato ad invidiare quell'astronave piovuta in cortile,
oggetto di ammirazione e curiosità. Poche ore e sparì tutto. Sparì l'Aurelia,
per sempre; sparì il "Moscardin" per quasi un anno. Il Parillino era sempre
li a ridosso del muro, sempre più coperto di polvere, le gomme sempre più
sgonfie, ad aspettare l'arrivo del suo Brancaleone. Indovina che mestiere
faceva il "Moscardin"?
3)
La casa di ringhiera in cui
passai l'infanzia, una splendida infanzia, aveva un'altra caratteristica:
era all'estrema periferia di Milano, talmente estrema che da li, attraverso
campi e marcite, avresti potuto arrivare a Pavia, senza incontrare altro che
cascine. Solo una strada in terra battuta la collegava al capolinea del
tram. Alcuni piccoli negozi assicuravano una parziale autosufficienza,
esclusa frutta e verdura. Per questa, arrivavano da fuori due ambulanti, uno
foggiano e l'altro barese. Uno al mattino l'altro al pomeriggio,
suddividendosi così la sparuta clientela, senza campanilistico spargimento
di sangue. Annunciavano la loro presenza con incomprensibili frasi urlate a
magnificare i loro prodotti. Ambedue si muovevano utilizzando scalchighati
tricicli: un cassone a due ruote unito ad un mezzo telaio di bicicletta con
relativa ruota. Era il loro negozio. le cassette della frutta e verdura
poste a scalare in una ondeggiante struttura piramidale. Una pensilina di
tubi e tela a ripararle dal sole e dalla pioggia. La propulsione del
triciclo, del negoziante, della mercanzia e del tendalino era assicurata da
un microscopico fumigante cinquantino, sempre ululante al massimo dei giri,
talmente soggiogato dalla fatica da aver perso ormai da lungo tempo la
consapevolezza di esistere. L'insieme arrancava a non più di cinque all'ora
attraverso le buche della strada, facendolo sembrare un piccolo natante in
balia dei marosi. Il ponte di comando del tutto sbandato e fuori asse
rispetto alla stiva, il timoniere a governare per evitarne il naufragio.
Nomi ormai cancellati dalla memoria collettiva, nemmeno una lapide
rugginosa, ciao Jlo, ciao, Empolini..
4)
Era l'epoca in cui a
ferragosto si partiva per le vacanze estive, con l'Iso: due borse appese ai
fianchi ed uno zaino militare tra le gambe, dietro lo scudo. Erano vacanze
itineranti sempre in montagna, un giorno da una parte un altro dall'altra.
In mezzo i passi dolomitici. Pordoi, Falzarego, Gardena, Sella, e decine di
altri, allora tutti regolarmente con gli ultimi tornanti in terra battuta.
Valicammo anche lo Stelvio. Tormentati cristalli di dolomia trafiggevano il
cielo color cobalto. Sotto, ghiaioni ed abetaie, e la strada, insignificante
e pazzo scarabocchio. Godetti sensazioni irripetibili; protetto dalla
schiena di mio padre e dal seno di mia madre. Sotto di me pulsava un piccolo
scooter, una Iso, sette cavalli ed un metro e mezzo di felicità. Sette
cavalli dal pulsare lento, inesorabile, mai in affanno. Il suono del motore
rimbalzava sui muretti a secco, cambiando tonalità quando incontrava il
vuoto delle sfinestrature, così come il cornettista modula il suono della
sua sordina. Alla sera il conforto di un alberghetto con le camere profumate
dalla resina del pino.
Alla base di uno di questi passi, agli ultimi tornanti prima di giungere in
fondovalle, ci fermò un giovane. Lo ricordo bene, era in sella ad una
Lambretta, arcaica, col motore scoperto e le piccolissime ruote: poco più di
un monopattino. Ci chiese come fosse la salita e se ce l'avrebbe potuta
fare. Mio padre lo rassicurò. Mi resi però conto che stava mentendo e, con
la consapevolezza di una superiorità meccanica morfologicamente non
palesata, gli fece capire che ambedue erano scooter, ambedue
centoventicinque, lui era solo e noi in tre. Non sapevo cosa significasse
fare i figli di puttana, ma in quel momento ne capii il significato
recondito e sorrisi.
5)
Quando nel pomeriggio, finiti
i compiti, uscivo con mia madre per qualche commissione, percorrevamo sempre
la stessa strada in direzione del, lontanissimo, centro città. In vero ci si
fermava, sempre molto prima di raggiungerlo. Lungo il percorso, la certezza
di incontrare qualche mendicante. C'era un giovane uomo, barbuto, che,
vedovo, chiedeva l'elemosina per sfamare i propri figli. Provavo un senso di
commozione e malinconia che mi rendeva incapace di negargli un soldino,
sicuro di potergli risolvere, almeno per quel giorno, il problema. Sorrideva
e ringraziava. Un giorno lo rividi, sorprendentemente a cavallo di un
Paperino. Non quello di disneyana memoria, ma un ciclomotore propulso da un
motorino ausiliario; il Mosquito. Oggetto invero di un certo pregio,
considerando che allora la massima parte degli operai si muoveva in
bicicletta. Pensai ad un colpo di fortuna e ne fui felice.
Diverso fu il sentimento che provai allorché dopo altri pochi giorni lo
rividi sempre allo stesso posto, chiedere l'elemosina. Mi sentii ingannato,
tradito nei miei sentimenti più profondi, capii, credo per la prima volta,
cosa fosse la menzogna. Il mio soldino non lo vide mai più.
6)
C'era un altro mendicante
motorizzato. Si muoveva a bordo di una strana poltrona a triciclo, mossa da
un piccolo motore a scoppio. L'aggeggio era comunque provvisto di fanale e
luci posteriori. Percorreva le vie del quartiere con velocità e sicurezza
alla ricerca dei mercati ove stazionare a lato di qualche bancarella.
L'uomo, non più giovane, era completamente privo delle gambe, perse in
chissà quale campagna militare, il tronco appoggiava direttamente sulla
panca del suo mezzo. Suonava la fisarmonica ed elargiva i pianetini della
fortuna, piccoli foglietti colorati di una carta sottile sottile. Il sorriso
serafico che accompagnava la sua musica, si dilatava ancor più allorché
riceveva l'obolo. Se il donatore poi era un bimbo, al sorriso aggiungeva una
carezza sul viso, dolce. Sulla strada appariva all'improvviso dal nulla,
veloce col motorino che, cantando, emetteva un gioioso fumo azzurro. Lui con
lo stesso sorriso, quasi una smorfia. Forse era Dio.
7)
Siamo ai giorni nostri. Una
brumosa giornata d'ottobre, non fredda. Percorrevo in auto una delle mille
stradine della brianza. Incrocio un motociclista: un prete a bordo di una
Galletto color avorio, la tonaca nera svolazzante, al posto del baschetto,
però, un casco. Era comunque un'apparizione d'altri tempi, piombata per
errore nel terzo millennio, sicuramente un' increspatura dell'onda
spazio-tempo che, sfuggita dalle leggi relativistiche, cercava la sua
identità perduta.
Rinaldo
(7.12.2006)
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