CRETA

Non la riconosci subito Micene: il sole del mezzogiorno trasforma le colline del paesaggio in riarse pietraie, povere d'ombra, tutte uguali. Ti avvicini ancora; ecco che le pietre improvvisamente si ricompongono, assumono contorni regolari, geometrici. Micene si è arresa, hai vinto le sue difese. Adesso stai varcando la porta dei Leoni. Gli dei hanno reso gigantesco il suo basso fornice; il mito ha dato armonia al suo austero timpano.
Sei dentro la città; c'è silenzio, le pietre incandescenti attendono ancora il ritorno del loro principe dalla piana dello Scamandro.

Fu storia antica eppur moderna: uomini contro uomini, inconsapevoli burattini sacrificati per gioco da un cinico Olimpo. I millenni sollevano la polvere dei viali in bassi mulinelli. Ora sei seduto al tuo banco di scuola, l'Iliade è aperta di fronte alle mura di Troia, davanti a te, alla cattedra, Omero ti conduce per mano tra le schiere degli eroi. Ci sono tutti; si fanno intorno a te, ognuno vuol raccontarti della propria patria. Più in la, solitario, Achille pensoso, il più grande tra gli eroi.

E' la stessa magia evocatrice che sanno irradiare Tirinto, Argo, Corinto, ma quella di Micene ti resta addosso, per sempre. Col tempo, il mio sguardo emigrò ancor più lontano, verso la collina di Hissarlik, dove poter spaziare, con gli occhi di Ettore, su quella piana non ancora contaminata dalle tende achee, prima che un beffardo cavallo cancellasse Troia dalla storia dei vivi.

Ma se Micene, alla fine si mostrò, varcando la cortina di luce, Troia restò il sogno di un incontro mai realizzato.
Lo inseguii per anni, ma lo scorrere del tempo lo portò lontano, dove la volontà si perde tra il mare e la linea dell'orizzonte.
Fuori d'ogni previsione e desiderio, mi trovai invece a Creta. Una vantaggiosa offerta turistica mi portò là, nel calore di un Ottobre che non voleva diventare autunno. Dedicai gli ultimi giorni, prima del ritorno, alla visita di Cnosso, la città di Minosse. Quanto essa mi sembrò lontana dalla severa schiettezza di Micene! Quanto stonava quel chiassoso vestito che Evans le aveva gettato addosso! Lei, generatrice di miti eterni, trasformata in vecchia baldracca per turisti americani. Eppure, sotto quei drappi, il suo corpo emanava ancora l'irresistibile fascino della leggenda.

Trovai alloggio presso un piccolo albergo distante alcuni chilometri dagli scavi. L'arredamento dell'ingresso testimoniava una lontana pretenziosità, ormai perdutasi nel corso degli anni. Il broccato della tappezzeria, scolorito dalla luce, rendeva visibili le testimonianze geometriche dell'avvicendamento d’innumerevoli quadri, l'ambiziosa fattura dell'arredo portava vecchie cicatrici lasciate da graffi, crepe, e macchie d’ogni genere.
Nonostante la modestia della camera assegnatami, mi sembrò che la pulizia fosse in ogni modo accettabile; in più, nella parete di fondo, sotto la finestra, potevo usufruire dei servigi di un piccolo scrittoio.
Il portiere, con il quale scambiai qualche battuta di circostanza, mi disse che, seppur per breve tempo, in quest’albergo vi aveva alloggiato addirittura Sir Arthur Evans, il grande archeologo.

Trascorsi i giorni seguenti alla ricerca delle vestigia più incontaminate di Cnosso, laddove la solennità del luogo aveva tenuto lontano le irridenti caricature dei vecchi restauri.
Solo da quei ruderi vidi compiersi i destini di Minosse, Dedalo, Icaro, Teseo, Arianna, risucchiati nell'inquietante vortice generato dal Minotauro. Solo attraverso quella polvere, vidi la furia di Poseidone esplodere dalle acque di Santorini, zittendo ogni rumore e cospargendo di grigio tutti i colori del Mediterraneo.

Furono queste le sensazioni che mi portai in camera l'ultima sera prima di lasciare Creta. Un movimento eccessivo nell'aprire il cassetto dello scrittoio, lo fece uscire dalle guide e cadere a terra. Mi accorsi allora che dal fondo, formato da due lamine di legno perfettamente sovrapposte, penzolava il lembo di un foglio di carta. Separai, quello che palesemente era un doppio fondo, liberando l'inatteso ospite. Si trattava di una vecchia carta da lettera, ingiallita dagli anni, completamente ricoperta da una fitta grafia espressa in lingua inglese; forse la dimenticanza di uno dei tanti turisti albionici che da sempre visitano Creta. Dovetti lottare strenuamente contro la mia incredulità prima di persuadermi che quella firma in fondo al foglio, chiara ed inequivocabile, era proprio la sua: quella di Arthur Evans.
Chiamando all'appello tutte le mie limitate ed ormai assopite reminiscenze della lingua inglese ed aiutandomi con un piccolo vocabolarietto per uso turistico, ne iniziai una sommaria traduzione. Vi spesi quasi tutta la nottata, incontrando forse più difficoltà ad accettarne il contenuto che a tradurne i vocaboli. Ecco quanto ne trassi:

" Ho deciso di affidare la lettura di questa mia memoria al destino. La inserisco nel doppio fondo di questo cassetto, cosi come potrei introdurla in una bottiglia ed affidarla alle onde del mare. Forse qualcuno la troverà, forse sparirà nel nulla. Mai divulgherò il suo contenuto presso una qualsivoglia ottusa società archeologica i cui membri, ne sono certo, non si lascerebbero sfuggire l'occasione per gettare il fango dell'ironia e dell'incredulità sui frutti di decenni d’oneste ed onorate ricerche.
Voglio in ogni modo rassicurare l'occasionale lettore che quanto di seguito andrò ad esporre non è frutto d’alcuna alterazione mentale, ma solo il resoconto rigorosamente scientifico dell'ultimo scavo da me effettuato nell'area archeologica di Cnosso.

Avevo da alcuni giorni intrapreso una nuova campagna di sondaggi a circa un centinaio di Yarde dallo spigolo settentrionale del palazzo reale, motivato in ciò dal rinvenimento di un inizio di percorso lastricato. Esso appariva orientato verso una non lontana gibbosità del terreno. L'inclinazione delle lastre inoltre faceva presupporre che questo si svolgesse in leggera pendenza. Gli scavi si protrassero per alcune settimane, portando infine alla luce un corridoio largo non meno di quindici piedi e lungo almeno cento. Ai lati si ergevano due bastioni in grosse pietre squadrate che partendo da quota zero accompagnavano la strada fino alla base della montagnola ad una profondità in quel punto di oltre trenta piedi. Diedi quindi ordine alla squadra di sterratori di scavare dalla strada fino all'interno del terrapieno, segnalandomi immediatamente tutto ciò che venisse rinvenuto durante quest’operazione. Ormai stava maturando in me il convincimento che quella collinetta altro non fosse che un tumulo funerario, probabilmente una tomba a tholos della stessa fattura di quelle ritrovate dal mio collega Schliemann a Micene. Fu la giusta intuizione, ma con un'unica differenza: qui l'ingresso verso la parte circolare dalla camera era sbarrata da una solidissima parete di giganteschi massi, molto più massicci di quelli che componevano i due bastioni. Sicuramente si trattava di una misura cautelare per garantire un indisturbato riposo ad un personaggio di grande rilievo. Dovetti pertanto modificare il piano d’esplorazione aprendo un nuovo scavo sulla sommità della collina, diretto verso il basso. Apparve subito evidente che la volta era franata all'interno della cavità, intasandola tutta con le pietre e la terra della sovrastante collina. Lo svuotamento della cavità occupò altri giorni di duro lavoro.

Fu un tardo pomeriggio, quando venni raggiunto in camera dal capo degli scavatori, il quale, con voce rotta dall'emozione, mi disse di seguirlo immediatamente sul luogo dello scavo. Risalii ansante sul pendio della collinetta e guardai sotto. La camera sepolcrale era stata completamente ripulita dai detriti. Sul fondo al centro giaceva un gigantesco sarcofago. Mi feci calare all'interno dello scavo per poterlo osservare con maggiore attenzione; era un immenso monolito di pietra grigiastra, rozzamente sbozzato, privo di qualsiasi richiamo artistico e senza alcun’iscrizione. Le dimensioni esterne erano tali da far supporre uno smodato spessore delle pareti. Sopra di esso poggiava un' altrettanto gigantesca pietra a copertura, il cui spessore (questo facilmente verificabile) fu misurato in ben cinque piedi. 

Impiegai ben oltre una settimana prima di recuperare su tutta l'isola un argano a vapore capace di rimuovere le migliaia di libbre del coperchio, e più di un giorno per il posizionamento delle imbracature. Dopo alcuni tentativi la macchina, regolata alla massima pressione, riuscì a smuovere la pietra, facendola scivolare a lato, di quel poco che permettesse di intravederne il contenuto.
Ciò che apparve fu orribile, e riempie tuttora il mio sonno di spaventosi incubi. Vi giaceva uno scheletro, perfettamente conservato; umano fino alle ultime vertebre cervicali. Da lì iniziava il mostro; sulle vertebre, in maniera del tutto coerente e naturale, s’inseriva uno spaventoso teschio taurino, sovrastato da una coppia di formidabili corna. Diedi ordine al macchinista di manovrare per riportare immediatamente il coperchio nella posizione primitiva, riservando così quel segreto, al mio solo sguardo allucinato.

La notte la trascorsi insonne, perseguitato da quell'immagine che, ossessiva, si replicava all'infinito nella mia mente. Un furibondo temporale, i cui lampi sembrava si fossero tutti concentrati sopra Cnosso, costituì l'adeguato sinistro commento sonoro.
Le prime luci dell'alba ed un pallido raggio di sole filtrato dalla persiana mi dissero che il temporale era passato, ma il nuovo giorno non riuscì a restituirmi la pace.
Decisi di ritornare al tumulo, attratto dal potere ipnotico di quelle ossa. Faticai parecchio a risalire la china della collinetta; il fango formatosi dalla terra appena smossa si attanagliava agli stivali i quali sprofondavano in esso fino alla caviglia. Il destino mi regalò un’altra formidabile sorpresa: quel coperchio, eppur così gigantesco, era stato frantumato dai fulmini in più pezzi; dalle larghe crepe l'acqua era filtrata all'interno del sarcofago e del suo contenuto, non restava altro che un’informe fanghiglia. Giove quella notte aveva deciso che i segreti degli dei non dovessero essere divulgati agli umani.

Ignoto lettore, sappi che ora tu sei l'unico a conoscenza di questo terribile segreto e che gli dei faranno di tutto per difenderlo ancora una volta."

Anch'io, come Evans, fui svegliato dopo poche ore di sonno dal solito pallido raggio di sole mattutino. Preparai i bagagli, depositando il prezioso manoscritto nella più piccola delle valigie, pagai il conto dell'albergo, presi il taxi e raggiunsi l'aeroporto dell'isola. Fu proprio nell'esatto momento in cui, scaricati i bagagli a terra, mi accinsi a pagare il taxista, che mi sentii sfiorare da un'improvvisa folata di tiepido vento. Mi girai appena in tempo per vedere contro il disco dorato del sole, una sagoma umana saettare lontana nel cielo; nonostante l'improvvisa lontananza ebbi l'impressione che quella figura indossasse dei calzari alati. Nello stesso momento la mia piccola valigia era scomparsa, portando con se il manoscritto.

Caro vecchio Evans, avevi ragione: gli dei esistono ancora, e sono terribilmente gelosi!


Rinaldo
(22.02.2007)