INCIDENTE CON 100 MORTI |
Lasciata Trapani, trascorsi il resto della ferma militare a Trento presso il quarto reggimento di artiglieria pesante campale in una piccola e gelida caserma dell'estrema periferia della città. Il compito affidatomi dalla patria consisteva nel calcolare e trasmettere i dati di tiro agli obici 155/23 in dotazione. Questo in forma ufficiale; in realtà si trattava di fare il possibile per evitare che le granate andassero fuori poligono, affidandomi, per lo scopo, a logore ed incomplete tavole di tiro, arcaici strumenti trigonometrici ed una buona dose di culo.
Fu una mattina di Giugno;
ero salito in camerata per non so più quale motivo, allorchè uscendone,
quasi mi scontrai con il comandante del centro tiro.
Pensai tra me e me che non
mi sembrava proprio di essermi meritato l'infamia della fucilazione in
cimitero per un semplice imboscamento! Inoltre la voce del maggiore non mi
sembrava particolarmente alterata.
Causa la fulmineità del
rastrellamento, nessuno di noi era a conoscenza delle ragioni di questa
missione al camposanto.
Giunti a destinazione, ci
accomodammo tutti in una piccola saletta occupata da un lungo tavolo con
alcune sedie intorno. Di fronte a noi sedevano uno sconosciuto colonnello
ed altri ufficiali d'artiglieria, tutti con i visi atteggiati ad una
severa compunzione.
Partenza il giorno
successivo alla volta di Canove di Roana, quartier generale delle
operazioni per tutto l'altopiano.
In cabina di guida, sopra il
sedile, e coscienziosamente occultate tra l'aletta parasole ed il tetto,
ammiccavano alcune riviste pornografiche (quelle danesi, allora le
migliori), fedeli ed economiche partners delle più forsennate
masturbazioni nei cessi della caserma. Erano anch'esse parte degli effetti
personali del mio compagno, gentilmente messe a disposizione per i bisogni
della piccola comunità, maresciallo a parte.
I lavori iniziarono il
giorno stesso: gli operai dell'impresa aprivano la fossa, ne estraevano i
resti, sigillandoli infine entro robusti sacchi di cellophane. Noi, nella
tenda posta ai bordi del campo, preparavamo i cartoncini con i dati di
ogni caduto. Nel pomeriggio, a conclusione della giornata, i sacchi erano
caricati sul camioncino, portati ad Asiago e lì scaricati. Il personale
dell'ossario avrebbe poi provveduto alla loro nuova sistemazione. Verificammo molte volte come le planimetrie redatte nell'infuriare della battaglia non avessero alcun riscontro con le sepolture realmente effettuate. Poteva facilmente accadere che in uno scavo non si rinvenisse alcuna salma; che in altre, per contro, si estraessero più soldati laddove avrebbe dovuto essercene uno solo. In questo caso, per non tramandare ai posteri l'inquietante immagine di mostruosi soldati austroungarici, pluricefali, e dotati di svariate gambe e braccia si suddividevano le spoglie in più sacchi cercando di attuare una ridistribuzione il più possibile sensata, dando un nome se possibile, altrimenti utilizzando il mesto appellativo di "ignoto". Le più grosse difficoltà le incontrammo in uno sperduto cimitero ai margini dell'altopiano, verso Rovereto. Esso giaceva in fondo a due profonde gole che lo lasciavano in ombra per buona parte della giornata. Era unicamente composto da fosse comuni. Non lontano da esso si trovava una minuscola baita abitata da vecchio solo, mezzo eremita, mezzo barbone. Il vecchio, sicuramente già adulto all'epoca dei fatti, ci raccontò che il fronte correva proprio su una delle due creste. Gli austroungarici vi avevano installato una teleferica che dalle trincee giungeva fin dentro le fosse, le cui ingorde fauci nemmeno la morte riusciva a saziare. Abbassando il tono della voce, quasi ad enfatizzare ciò che stava per dire, egli ci confidò che ancora oggi, nelle notti d'inverno, quando il vento ulula la sua serenata, le stelle bluastre danzano alla luce della luna, e la neve, incantata, le sta a guardare, dall'altopiano si spandono le note di una macabra sinfonia. Puoi allora udire il tuono dei timpani dare voce alla vampa dei mortai, gli acuti dei violini indicare la strada al sibilo delle pallottole ed il pieno dell'orchestra accompagnare il parto della granata, quando i suoi cuccioli metallici si spandono intorno a cercare nuove prede. Prende poi vigore lo scomposto coro delle urla dei soldati all'assalto, interrotto in breve dagli aculei dei reticolati. Infine, nel ritrovato silenzio, senti i lamenti, le imprecazioni, i pianti, le bestemmie che sommessamente le ossa consegnano al vento.
Fu questo il luogo dove, a
lato di una fossa, trovammo una cassetta di munizioni ancora intatta e,
stranamente, destinata ad armi italiane. Trattenemmo per noi solo alcuni
ricordi, lasciando la massima parte al vecchio perchè potesse ricavarne
qualcosa vendendo l'ottone.
In forma semiclandestina
potevamo anche disporre dei due mezzi di trasporto, almeno per quella
manciata di chilometri che ci separava da Asiago, nostra meta serale. Il mese di luglio offriva calde serate ove la luce del giorno impegnava le tenebre in una lunga ed estenuante lotta e solo ben oltre le dieci era costretta all'inevitabile ritirata. Questo ci permetteva di percorrere la strada da Canove ad Asiago usufruendo di una visibilità ancora del tutto diurna. Si potevano così affrontare le numerose curve del percorso nelle migliori condizioni. Salimmo sul camioncino e partimmo. Sul cassone, a ridosso della cabina guida, erano legate due taniche di benzina da cinquanta litri destinate alla campagnola. Immediatamente si scatenò la follia del mio compagno il quale prese ad affrontare l'interminabile successione di curve con una velocità da brivido, costringendo il povero mezzo ad una sconosciuta ed estenuante danza. Da parte mia non arrivò nessuna raccomandazione alla prudenza poichè anch'io al suo posto avrei fatto lo stesso e forse, anche di più.
Il botto, tuonò subito dopo
una curva. Il terribile puzzo di benzina che immediatamente ne seguì ci
urlò che una delle due taniche si era staccata dal suo alloggiamento e
stava allagando tutto il cassone.
Guardammo, silenziosi,
l'ineluttabile svolgersi dei fatti, attendendoci da un momento all'altro
la punitiva vampa; ma ciò non avvenne, pian piano lo sgocciolamento
diminuì d'intensità, così come lo sfrigolio. Dopo alcuni minuti cessò ogni
fenomeno. Attendemmo un'altra buona mezz'ora prima di trovare il coraggio
di risalire sul camion, riavviarlo e ritornare a Canove, a passo d'uomo. Sempre Muraca, il sottoscritto ed il c.l. Era un tardo pomeriggio; da un cimitero sperduto in una radura presso Marcesina, stavamo portando l'ultimo carico d'ossa verso Asiago. La strada sterrata serpeggiava attraverso pascoli e radi boschetti di conifere. Il percorso era prevalentemente pianeggiante, solamente interrotto da alcune ondulazioni. Il camion procedeva aumentando sempre più il ritmo della corsa. Dietro, a debita distanza dalla densa cortina di polvere, seguiva la campagnola del maresciallo. Un improvviso avvallamento, subito seguito da un dosso, fece sobbalzare il mezzo, provocandone, una volta ripreso l'assetto, un improvvisa ed irragionevole accelerazione. Ci rendemmo immediatamente conto che a quella velocità sarebbe stato impossibile affrontare la curva contro la quale ci stavamo avventando. Mi voltai verso Muraca e vidi sul suo viso lo stupore tramutarsi in panico, vidi le sue braccia armeggiare disperatamente sul volante e la gamba destra affondare più volte sul pedale del freno, ma fu tutto inutile e non mi restò altro che aggrapparmi ai sostegni con tutta la forza disponibile.
Il camion uscì diritto per
la tangente alla curva e saltellò sulle ruote per un breve tratto di
prato. Il conseguente rallentamento, non fu però sufficiente ad evitare
che un avvallamento del terreno, postosi diagonalmente alle ruote,
fungesse da catapulta ed invitasse il c.l. a sdraiarsi pigramente su
un fianco, così come un vecchio pachiderma, sconfitto dal sole, si
accascia nella polvere della savana.
Controllammo infine il
motore e da ciò capimmo cosa fosse successo: lo snodo che collega
l'acceleratore al carburatore, (era un mezzo che funzionava a benzina) per
il sobbalzo si era piegato in una postura anomala, tale da mantenere il
motore accelerato al di fuori della volontà del guidatore. Questo
tranquillizzò ancor più il maresciallo, limitando formalmente le nostre
responsabilità. Unica testimone del fatto, fu una presunta villeggiante della zona, probabilmente di ritorno da qualche escursione. Ci scattò anche qualche foto che poi ci fece recapitare, e che conservo tuttora. Il giorno seguente, nelle pagine interne di un giornale locale, leggemmo il seguente titolo: "Incidente con cento morti nei pressi di Marcesina". Il breve articolo che ne seguiva, descriveva, tra il serio ed il faceto, lo svolgersi dei fatti. Arguimmo che quell'affabile signora che ci scattò le foto, altro non era che una giornalista in villeggiatura, e fu la cosa che maggiormente mandò in bestia il maresciallo.
La nostra missione ebbe
termine con il mese di settembre con molti rimpianti, ma con l'innegabile
merito di averci allegramente avvicinato di altri tre mesi al momento del
congedo.
Rinaldo |