INCIDENTE CON 100 MORTI

Lasciata Trapani, trascorsi il resto della ferma militare a Trento presso il quarto reggimento di artiglieria pesante campale in una piccola e gelida caserma dell'estrema periferia della città. Il compito  affidatomi dalla patria consisteva nel calcolare e trasmettere i dati di tiro agli obici 155/23 in dotazione. Questo in forma ufficiale; in realtà si trattava di fare il possibile per evitare che le granate andassero fuori poligono, affidandomi, per lo scopo, a logore ed incomplete tavole di tiro, arcaici strumenti trigonometrici ed una buona dose di culo.

Fu una mattina di Giugno; ero salito in camerata per non so più quale motivo, allorchè uscendone, quasi mi scontrai con il comandante del centro tiro.
-Ceruti, Cosa cazzo fai in camerata a quest'ora! Sempre imboscato eh? Mettiti subito in tenuta da libera uscita che tra dieci minuti si parte per il cimitero-. Non ebbi il tempo di giustificare la mia presenza che già era sparito in fondo al corridoio. Aveva evidentemente fretta.

Pensai tra me e me che non mi sembrava proprio di essermi meritato l'infamia della fucilazione in cimitero per un semplice imboscamento! Inoltre la voce del maggiore non mi sembrava particolarmente alterata.
Partimmo puntuali alla volta del cimitero di Trento. Davanti la a.r. del comandante, dietro un c.l. con il sottoscritto e due altri presunti condannati al patibolo. In cabina, a lato del conduttore sedeva il vecchio maresciallo dell'ufficio posta. Sulle panche del cassone sedevano con me: Deana, un friulano dal corpo gigantesco dominato da una spaesata testolina bionda di bambino. Stonavano gli zigomi già  solcati da una ragnatela di rosse venuzze, a testimonianza di una ormai inveterata familiarità con il limpido distillato delle vinacce. C'era Episcopo, radiofonista conduttore, napoletano, munifico dispensatore di scherzi e sfottò, ma terribilmente permaloso allorchè questi erano rivolti, invece, alla sua persona. Non nascondeva una spiccata sensibilità verso qualsiasi forma di superstizione. Il conduttore del c.l. era Muraca, calabrese; un metro e sessanta di magrezza, ironia e timidezza. Pur avendo da pochi mesi conseguito la patente di guida per automezzi, si erà già guadagnato la fama di autista veloce e spericolato, un vero talento naturale.

Causa la fulmineità del rastrellamento, nessuno di noi era a conoscenza delle ragioni di questa missione al camposanto.
Ritengo a questo punto doveroso puntualizzare come, per evidenti ragioni di sintesi nell'infuriare dalla battaglia, il lessico militare abbia concentrato numerosi vocaboli fino all'intima essenza di una sigla; cosicchè la sibillina affermazione: Una a.r., occupata da un a.u.c. e due a.c.s., precedeva un c.l. con soldati armati di f.a.l.- deve essere tradotta in: Una Autovettura da Ricognizione (un fuoristrada, es: Fiat Campagnola, Jeep ecc.) occupata da un Allievo Ufficiale di Complemento e due Allievi Comandanti di Squadra, precedeva un Camion Leggero (niente a che vedere quindi con congregazioni confessionali, dal vago sapore integralista) sul quale si trovavano soldati armati di Fucile Automatico Leggero (lontano da un'autocompiacente, ancorchè poetica ostentazione di virilità).

Giunti a destinazione, ci accomodammo tutti in una piccola saletta occupata da un lungo tavolo con alcune sedie intorno. Di fronte a noi sedevano uno sconosciuto colonnello ed altri ufficiali d'artiglieria, tutti con i visi atteggiati ad una severa compunzione.
Inizia il processo, pensai.
Prese la parola lo sconosciuto colonnello: - Vi abbiamo convocato in questa sede perchè: bla bla bla...bla bla bla...
In buona sostanza eravamo stati prescelti per una missione particolarmente, a loro detta, delicata e solenne: cadeva in quell'anno il cinquantesimo anniversario della fine della prima guerra mondiale, e con essa cessava il periodo di concessione del suolo italico alle spoglie mortali dei nostri ex nemici caduti in battaglia. Si rendeva quindi necessario smantellare tutti i cimiteri austroungarici dell'altopiano di Asiago, trasportandone i resti al relativo ossario. Mentre le operazioni di scavo e di raccolta delle spoglie, sarebbero state affidate ad un'impresa privata, il nostro incarico avrebbe riguardato la trascrizione su appositi cartoncini dei dati anagrafici di ogni singolo caduto, evinti delle mappe planimetriche di ciascun cimitero. Da quel momento, e fino al termine dei lavori, noi saremmo stati alle dirette dipendenze dalla Onorcaduti, della quale il colonnello relatore era uno dei responsabili.

Partenza il giorno successivo alla volta di Canove di Roana, quartier generale delle operazioni per tutto l'altopiano.
Il mattino seguente, dopo aver stipato nello zaino tutti gli effetti personali necessari, ci avviammo per la nuova destinazione. Davanti procedeva la campagnola col maresciallo ed Episcopo. Dietro seguiva il camioncino con Muraca al volante, io a lato, ed il gigante friulano, solo nel cassone, seduto sulla panca di legno.

In cabina di guida, sopra il sedile, e coscienziosamente occultate tra l'aletta parasole ed il tetto, ammiccavano alcune riviste pornografiche (quelle danesi, allora le migliori), fedeli ed economiche partners delle più forsennate masturbazioni nei cessi della caserma. Erano anch'esse parte degli effetti personali del mio compagno, gentilmente messe a disposizione per i bisogni della piccola comunità, maresciallo a parte.
Giunti a Canove, trovammo alloggio in uno stanzone presso la casermetta dei carabinieri. Per il vitto, lo scafatissimo maresciallo aveva concluso una vantaggiosisa trattativa con un ristorantino poco lontano: pranzo e cena, milleduecento lire a testa, poco più della metà della nostra diaria giornaliera.

I lavori iniziarono il giorno stesso: gli operai dell'impresa aprivano la fossa, ne estraevano i resti, sigillandoli infine entro robusti sacchi di cellophane. Noi, nella tenda posta ai bordi del campo, preparavamo i cartoncini con i dati di ogni caduto. Nel pomeriggio, a conclusione della giornata, i sacchi erano caricati sul camioncino, portati ad Asiago e lì scaricati. Il personale dell'ossario avrebbe poi provveduto alla loro nuova sistemazione.
Contrariamente a quanto potesse sembrare, non fu proprio un lavoro macabro. Nel giro di pochi giorni avevamo gia fatto amicizia con gli operai dell'impresa e con le povere ossa dei caduti.
In fondo si trattava di soldati come noi, della nostra stessa età, solo molto ma molto più sfortunati di noi. Non provai mai raccapriccio ma unicamente tanta pietà, soprattutto quando il tempo conservava ancora la testimonianza dell'attimo della morte. Come non dimenticare il povero teschio di un ragazzo di diciotto anni con la volta cranica sollevata verso l'esterno. Dentro, ancora conficcata, stava una pallottola di "91" . Era morto sicuramente durante l'assalto ad una trincea, da colpo sparato da sotto in su, forse da un suo coetaneo.

Verificammo molte volte come le planimetrie redatte nell'infuriare della battaglia non avessero alcun riscontro con le sepolture realmente effettuate. Poteva facilmente accadere che in uno scavo non si rinvenisse alcuna salma; che in altre, per contro, si estraessero più soldati laddove avrebbe dovuto essercene uno solo. In questo caso, per non tramandare ai posteri l'inquietante immagine di mostruosi soldati austroungarici, pluricefali, e dotati di svariate gambe e braccia si suddividevano le spoglie in più sacchi cercando di attuare una ridistribuzione il più possibile sensata, dando un nome se possibile, altrimenti utilizzando il mesto appellativo di "ignoto".

Le più grosse difficoltà le incontrammo in uno sperduto cimitero ai margini dell'altopiano, verso Rovereto. Esso giaceva in fondo a due profonde gole che lo lasciavano in ombra per buona parte della giornata. Era unicamente composto da fosse comuni. Non lontano da esso si trovava una minuscola baita abitata da vecchio solo, mezzo eremita, mezzo barbone. Il vecchio, sicuramente già adulto all'epoca dei fatti, ci raccontò che il fronte  correva proprio su una delle due creste. Gli austroungarici vi avevano installato una teleferica che dalle trincee giungeva fin dentro le fosse, le cui ingorde fauci nemmeno la morte riusciva a saziare.

Abbassando il tono della voce, quasi ad enfatizzare ciò che stava per dire, egli ci confidò che ancora oggi, nelle notti d'inverno, quando il vento ulula la sua serenata, le stelle bluastre danzano alla luce della luna, e la neve, incantata, le sta a guardare, dall'altopiano si spandono le note di una  macabra sinfonia. Puoi allora udire il tuono dei timpani dare voce alla vampa dei mortai, gli acuti dei violini indicare la strada al sibilo delle pallottole ed il pieno dell'orchestra accompagnare il parto della granata, quando i suoi cuccioli metallici si spandono intorno a cercare nuove prede. Prende poi vigore lo scomposto coro delle urla dei soldati all'assalto, interrotto in breve dagli aculei dei reticolati. Infine, nel ritrovato silenzio, senti i lamenti, le imprecazioni, i pianti, le bestemmie che sommessamente le ossa consegnano al vento.  

Fu questo il luogo dove, a lato di una fossa, trovammo una cassetta di munizioni ancora intatta e, stranamente, destinata ad armi italiane. Trattenemmo per noi solo alcuni ricordi, lasciando la massima parte al vecchio perchè potesse ricavarne qualcosa vendendo l'ottone.
Al termine della giornata, consegnato il carico all'ossario, eravamo lasciati in completa libertà. Anche l'ora del ritiro nella casermetta dei carabinieri non rappresentava un problema, Il maresciallo perdipiù dormiva altrove, in un giaciglio mai divulgato, e divenuto oggetto delle più maliziose supposizioni.

In forma semiclandestina potevamo anche disporre dei due mezzi di trasporto, almeno per quella manciata di chilometri che ci separava da Asiago, nostra meta serale.
Era il momento in cui molte famiglie vicentine, almeno quelle di condizione agiata, trascorrevano la stagione estiva nei paesi dell'altopiano, portando con loro le giovani donne di servizio. C'era quindi la speranza di sostituire alle brune ossa, la compagnia di ben più vitali e rosee membra.
Di solito non si combinava niente; qualche volta si combinava poco; mai si riusciva ad andare più in la di quel poco. 

Il mese di luglio  offriva calde serate ove la luce del giorno impegnava le tenebre in una lunga ed estenuante lotta e solo ben oltre le dieci era costretta all'inevitabile ritirata. Questo ci permetteva di percorrere la strada da Canove ad Asiago usufruendo di una visibilità ancora del tutto diurna. Si potevano così affrontare le numerose curve del percorso nelle migliori condizioni. Salimmo sul camioncino e partimmo. Sul cassone, a ridosso della cabina guida, erano legate due taniche di benzina da cinquanta litri destinate alla campagnola. Immediatamente si scatenò la follia del mio compagno il quale prese ad affrontare l'interminabile successione di curve con una velocità da brivido, costringendo il povero mezzo ad una sconosciuta ed estenuante danza. Da parte mia non arrivò nessuna raccomandazione alla prudenza poichè anch'io al suo posto avrei fatto lo stesso e forse, anche di più.

Il botto, tuonò subito dopo una curva. Il terribile puzzo di benzina che immediatamente ne seguì ci urlò che una delle due taniche si era staccata dal suo alloggiamento e stava allagando tutto il cassone.
La suppletiva secchiata di adrenalina ci fece imboccare, a freni bloccati, una piccola strada sterrata che si arrampicava verso il bosco subito dopo la curva. Spalancammo le porte, saltammo giù dal camion e ci allontanammo di corsa. Raggiunta una certa distanza, potemmo osservare, a gambe tremanti, che la benzina, infiltrandosi tra le assi del piano di carico, stava colando proprio sulla marmitta surriscaldata, provocando un sinistro e minaccioso sfrigolio, presagio di ben più roventi sviluppi. Nella mia mente si accavallarono immagini di roghi infernali, di infamanti accuse in cupi processi inquisitori, ai quali avrebbe seguito l'oblio eterno in un'oscura segreta del carcere militare. Non so cosa fosse passato nella testa di Muraca: credo qualcosa di analogo, ma sicuramente aggravato dalla perdita delle amate riviste porno, e dalla rinuncia in eterno al peperoncino di Soverato.

Guardammo, silenziosi, l'ineluttabile svolgersi dei fatti, attendendoci da un momento all'altro la punitiva vampa; ma ciò non avvenne, pian piano lo sgocciolamento diminuì d'intensità, così come lo sfrigolio. Dopo alcuni minuti cessò ogni fenomeno. Attendemmo un'altra buona mezz'ora prima di trovare il coraggio di risalire sul camion, riavviarlo e ritornare a Canove, a passo d'uomo.
Forse fu l'amicizia con quelle povere ossa a far sì che i loro spiriti tendessero una mano benevola sulla nostra irresponsabile incoscienza; ma non sapemmo ringraziarli con la dovuta riconoscenza, anzi.

Sempre Muraca, il sottoscritto ed il c.l. Era un tardo pomeriggio; da un cimitero sperduto in una radura presso Marcesina, stavamo portando l'ultimo carico d'ossa verso Asiago. La strada sterrata serpeggiava attraverso pascoli e radi boschetti di conifere. Il percorso era prevalentemente pianeggiante, solamente interrotto da alcune ondulazioni. Il camion procedeva aumentando sempre più il ritmo della corsa. Dietro, a debita distanza dalla densa cortina di polvere, seguiva la campagnola del maresciallo. Un improvviso avvallamento, subito seguito da un dosso, fece sobbalzare il mezzo, provocandone, una volta ripreso l'assetto, un improvvisa ed irragionevole accelerazione. Ci rendemmo immediatamente conto che a quella velocità sarebbe stato impossibile affrontare la curva contro la quale ci stavamo avventando. Mi voltai verso Muraca e vidi sul suo viso lo stupore tramutarsi in panico, vidi le sue braccia armeggiare disperatamente sul volante e la gamba destra affondare più volte sul pedale del freno, ma fu tutto inutile e non mi restò altro che aggrapparmi ai sostegni con tutta la forza disponibile.

Il camion uscì diritto per la tangente alla curva e saltellò sulle ruote per un breve tratto di prato. Il conseguente rallentamento, non fu però sufficiente ad evitare che un avvallamento del terreno, postosi diagonalmente alle ruote, fungesse da catapulta ed invitasse  il c.l. a sdraiarsi pigramente su un fianco, così come un vecchio pachiderma, sconfitto dal sole, si accascia nella polvere della savana.
Uscimmo a precipizio dall'unica porta  apribile, ruotandola verso l'alto come il portello di un sottomarino. Arrivò il maresciallo, che, forse a causa della cortina fumogena, non si rese del tutto conto di quanto veloci fossimo andati in quell'ultimo tratto. Si limitò infatti a raccomandarci meno fretta nella guida considerando il tempo che avevamo a disposizione. Con un palo, un contadino, ed una coppia di buoi rinvenuti poco lontano, non fu difficile rimettere sulle ruote il camioncino, il quale peraltro, e per fortuna, presentava solo un'ammaccatura ad una lamiera laterale della cabina, prontamente risolta, con un vigoroso pugno sferrato dall'interno.

Controllammo infine il motore e da ciò capimmo cosa fosse successo: lo snodo che collega l'acceleratore al carburatore, (era un mezzo che funzionava a benzina) per il sobbalzo si era piegato in una postura anomala, tale da mantenere il motore accelerato al di fuori della volontà del guidatore. Questo tranquillizzò ancor più il maresciallo, limitando formalmente le nostre responsabilità.
In ultimo, raccolti e ricollocati a bordo alcuni sacchi che si erano sparsi intorno, potemmo ripartire alla volta di Asiago.

Unica testimone del fatto, fu una presunta villeggiante della zona, probabilmente di ritorno da qualche escursione. Ci scattò anche qualche foto che poi ci fece recapitare, e che conservo tuttora. Il giorno seguente, nelle pagine interne di un giornale locale, leggemmo il seguente titolo: "Incidente con cento morti nei pressi di Marcesina". Il breve articolo che ne seguiva, descriveva, tra il serio ed il faceto, lo svolgersi dei fatti. Arguimmo che quell'affabile signora che ci scattò le foto, altro non era che una giornalista in villeggiatura, e fu la cosa che maggiormente mandò in bestia il maresciallo.

La nostra missione ebbe termine con il mese di settembre con molti rimpianti, ma con l'innegabile merito di averci allegramente avvicinato di altri tre mesi al momento del congedo.
 

Rinaldo
(22.01.2007)