IL PELLEGRINAGGIO AD ARCORE
 


La mia prima motocicletta la ricevetti in dono da mio padre per una risicata, quanto insperata, promozione a scuola. Avevo forse quindici o sedici anni; non ricordo.

Era un cinquantino. Un Itom, che seppur stradale, portava il roboante nome di "competizione", ad enfatizzarne le caratteristiche sportive. Di colore giallo e bianco, non aveva nulla di pontificio, rassomigliando piuttosto, per la sua sagoma aggressiva, ad una creatura diabolica.

I mezzi manubri scendevano spioventi quasi a voler raggiungere il mozzo della ruota anteriore, il sellino si prolungava fino al tappo del serbatoio riducendosi in quel punto ad una stretta striscia imbottita di gomma piuma. Dava un minimo di conforto allo stomaco quando, alla ricerca della massima velocità, ci si doveva appiattire sulla moto.

Dietro il cilindro, giganteggiava un grosso carburatore "del diciotto" il cui risucchio risultava letale a qualsiasi volatile incrociava nei dintorni, anche se di grossa taglia.

La marmitta emulava il secco rumore della mitragliatrice, trapassando con le sue puntute pallotole da 100 Decibel le scatole craniche di chi si trovaVA sulla traiettoria della raffica.

Andava guidato con la manopola del gas sempre spalancata, forzando il polso in una contorsionistica posizione. Così facendo, il motore dapprima emetteva un suono cupo, soffocato, quasi dovesse spegnersi per la secchiata di benzina cacciatagli in gola; poi, superata la crisi, si produceva in un inarrestabile crescendo fonico, culminante nell'apoteosi di uno sciame di centomila zanzare.

Fu una terribile cacciatrice di aninali dalla taglia più che doppia della sua. Vespe e Lambrette erano le vittime preferite.

In realtà la tattica di caccia si differiva sensibilmente per le due prede.

Con la Vespa non potevi far altro che lasciarla scappare allo spunto, durante il quale era davvero irresistibile. Avevi però la rassicurante certezza che dopo una forsennata rimonta l'avresti sicuramente ripresa, magari solo due centimetri prima del successivo semaforo.

Con la Lambretta andavi via senza problemi. Non dovevi però darle la scia, altrimenti ti si incollava dietro come il vinavil e ci sarebbero volute poi parecchie centinaia di metri per vederla lentamente, ma inesorabilmente allontanarsi dal tuo fanalino. Voltandoti indietro, avresti scorto il suo pilota apparentemente privo dal capo perchè occultato sotto il manubrio,la dove lo scudo di lamiera gli impediva di nuocere all'aerodinamica.

Da allora passarono alcuni anni durante i quali l'interesse per le lamiere delle quattro ruote, avevano temporaneamente eclissato la passione motociclistica.
Fu solo dopo aver concluso il servizio militare, nella ritrovata pace di un impiego stabile come giovine, e malpagato, impiegatello, che si risvegliò in me l'assopita passione di un tempo, accentuata dalla smaniosa voglia di "sporcarsi le mani". Il mio processo di proletarizzazione d'altra parte, non poteva prescindere dal possedere un mezzo che così sinteticamente lo rappresentava.

Mi sarei in ogni caso accontentato di una piccola motocicletta, usata, modesta nelle condizioni ed ancor più nel prezzo. Il tam-tam mi rispose quasi immediatamente, annunciandomi che una Gilera centoventicinque mi stava attendendo nella periferia sud di Milano al popolare prezzo di diecimilalire.

Partimmo quindi io e Flavio, pluriennale amico nonchè complice delle più dissennate cazzate, alla volta del mistico giaciglio, in una fizzante e ventosa serata di Marzo. La curiosità e la quasi assoluta certezza di non tornare a mani vuote, misero le ali ai piedi. In poco più di un'ora ci trovammo dentro una squallida officina, al cospetto del gelatinoso e flemmatico proprietario.

La moto giaceva sul fondo di una buca da meccanico; una fila di assi di legno nascondevano al mondo la sua lenta decomposizione. Estratta a fatica dal suo untuoso sepolcro, mi resi conto che era comunque completa, e sotto alterni strati di fango, grasso e nero olio, la ruggine non aveva ancora infierito in maniera irreversibile.

Fummo tutti accomunati da una gran fretta di concludere: il venditore per disfarsi velocemente del relitto prima che l'acquirente cambiasse idea; l'acquirente per portarlo via prima che il venditore aumentasse il prezzo. Una rapida messa in pressione di quanto restava dei pneumatici, l'allontanamento delle colonie di ragni che da generazioni vi avevano trovato alloggio, le diecimilalire ed il libretto che si scambiavano di mano, e poi via veloci a casa. La Gilera stava in mezzo tra me e Flavio, amorevolmente protetta e dolcemente accompagnata a spinta verso un nuovo futuro. L'energia che si sprigionò dal nostro entusiasmo ci fece percorrere la via del ritorno ancor più velocemente dell'andata avvolti dall'aura trionfale di mille progetti.

Iniziammo lo smontaggio partendo dalle cose più facili. La cantina di Flavio, presso la quale la motoretta aveva trovato temporaneo ricovero, divenne sempre più angusta man mano che cassette di frutta e barattoli di caffè si andavano velocemente e scriteriatamente colmando di metallici reperti. Una mal riposta fiducia su mai verificate capacità meccaniche e la certezza che lo spirito del dottor Frankenstein avrebbe sempre aleggiato, protettivo, sulle nostre teste, non ci fece minimamente preoccupare per il futuro rimontaggio.

La disillusione esplose in tutta la sua irridente drammaticità, allorchè, tolto l'ultimo bullone, separammo le due metà del carter motore. Una supernova di molle, mollette, ingranaggi, alberi, alberini, perni, e sferette, ci esplose fra le mani accompagnata dalla nera massa interstellare del fetido olio esausto. Quell'evento spazzò via di colpo tutto il nostro entusiasmo, bocciandone gli arditi progetti e gelando i nostri sorrisi in un ebete smorfia di penosa perplessità.

All'improvviso ci rendemmo conto che, così come stavano le cose, mai e poi mai saremmo riusciti a ridare forma e funzionalità alla nostra Gilera. La cantina restò chiusa ed infrequentata per molti giorni, in attesa che una nuova strategia ci ridasse il coraggio di accedervi. Convenimmo alla fine che l'unica soluzione possibile, seppur disperata, fosse quella di recarci direttamente ad Arcore, in Gilera, per commissionarne il rimontaggio, previo pagamento.

Considero ora, con un certo rammarico, come il paese brianzolo fosse scivolato in pochi lustri da ospite di una marca famosa a tenutario di una villa famigerata; ma così ha deciso il fato.

L'appuntamento ci venne tempestivamente ed inaspettatamente concesso. Caricammo cassette e barattoli colmi di molecole, atomi, e neutrini sulla Renault R4 di Flavio e partimmo con più misurato fervore alla volta di Arcore.

Come non dimenticare la sua R4; non è possibile! era la macchina di sua sorella, spudoratamente avantaggiatasi nel baratto con una Fiat 128. Nel giro di pochi mesi, la piccola Renault venne assumendo tutte le caratteristiche esclusive pretese dal suo proprietario. la carrozzeria, originariamente di un grigio metallizzato, ora esibiva un colore indefinibile risultante dall'alterno sovrapporsi di strati di fango e smog. La poverina, per lavarsi, altro non conosceva che l'acqua piovana; per di più quella di Milano. Decine di ammaccature erano le cicatrici guadagnate sul campo nel corso di innumerevoli battaglie, sempre perse, con altre auto. Mai mano pietosa di carrozziere accarezzò la sua ruvida pelle. Il baule era quasi completamente occupato da due dotatissime cassette di attrezzi previste per affrontare e risolvere qualsiasi genere di problema sia meccanico, che di genere più squisitamente politico in virtù di alcune gigantesche chiavi fisse della Usag. Da tempo non esisteva più la chiave per l'avviamento del motore. Al primo guasto era stata sostituita da un artigianale quanto ingegnoso sistema costituito da un interruttore e da un pulsante.

Da questo marchingegno, unitamente ad una regolazione molto personale dell'anticipo di accensione, si poteva fruire a volontà di poderose esplosioni allo scappamento, del tutto simili ai migliori botti clandestini di capodanno. Il procedimento era molto semplice: a motore acceso e marcia inserita, si toglieva, tramite quell'interruttore, la corrente alle candele, si pompava poi forsennatamente sull'acceleratore con lo scopo di allagare di benzina la marmitta, infine, con lo stesso interruttore, si ridava corrente alle candele, e... buuum! Gli sguardi perduti ed esterrefatti degli automobilisti intorno, si fondevano con i sussulti dei pedoni sui marciapiedi.

Con le puttane di via Venti Settembre l'effetto era a dir poco spettacolare, perchè, simulando una improbabile contrattazione del prezzo, ci si poteva lentamente avvicinare fin quasi a filo di tette.

Anche piazza San Babila fu per breve tempo oggetto delle nostre incursioni soddisfacendo una ludica quanto irresponsabile volontà derisoria nei confroni dei "fasci" che vi stazionavano. In questo caso l'adrenalina dilagava ancor più nell'abitacolo quando, a causa del botto, subdolamente il motore si piantava e la piccola e sempre denutrita batteria a sei Volts non ce la faceva a farlo ripartire. In questo caso dovevamo scendere e riavviare a spinta.

Non so cosa fosse passato per la testa dei sambabilini, sorpresi dapprima dal poderoso botto associato poi alla provocatoria immagine di due individui barbuti che, con l'eskimo indosso, spingevano una scalcinata R4 davanti a casa loro. Credo nulla di amichevole. Per nostra fortuna il motore piccolo ed un pò sfiatato consentiva riavviamenti, a spinta, davvero fulminei. Fu un'esperienza che preferimmo non replicare più.

Arrivammo ad Arcore. Una indaffarata impiegata ci fece accomodare in una saletta di attesa. Dopo pochi minuti fece il suo ingresso un anziano caporeparto. Una vestaglia chiara sostituiva la tuta, evidenziandone il ruolo. Ci ascoltò pazientementee mentre gli manifestavamo le nostre perplessità. Un bonario sorriso sollevava impercettibilmente gli angoli della sua bocca, allorchè il racconto delle nostre vicissitudini assumeva i toni più drammatici.

Trapelava da quel sorriso enigmatico tutta l'autorevolezza che nasce da una profonda competenza della sua materia. Rifiutò seccamente la nostra proposta di affidargli il rimontaggio del motore. Ci disse comunque di attenderlo lì, mentre lui sarebbe andato in ufficio tecnico. Questione di pochi minuti e sarebbe ritornato. In quell'attesa i nostri occhi si incrociarono più volte in un insieme di delusione, dubbio e curiosità, affondati in un meditabondo silenzio.

Ritornò poco dopo portando con se due voluminosi manuali. "questo" disse "è il manuale d'officina specifico per la vostra moto: motore, telaio, impianto elettrico, e tutto il resto". "Questo" Aggiunse,"è il catalogo delle parti di ricambio con numeri di codice e viste d'insieme di tutti i particolari. Vi servirà per seguire il corretto ordine di montaggio. Con questa roba qui il vostro motore lo monta anche un bambino di otto anni!"

Le sue parole ebbero il rassicurante risultato di farci ritrovare tutto l'entusiasmo perduto, accresciuto dall'asprigno gusto di una sfida raccolta.

La moto fu rimessa a nuovo nel giro di pochi mesi e fu da subito perfettamente funzionante.

Conservo ancora quella documentazione, unta d'olio, macchiata, e dalle pagine sciupate.

Sono il ricordo della poderosa manata che mi costrinse proditoriamente a nuotare. Dopo allora sulla immobile superficie del nero olio esausto, riesco a muovermi con una certa disinvoltura.
 

Rinaldo
(15.1.2007)