Via Parenzo 6 |
Il vecchio camion con la mobilia arrancava sui lastroni sconnessi di Via Ludovico il Moro. Ancora poche centinaia di metri ed avrebbe terminato il suo viaggio che da Cernobbio, sul lago di Como, lo aveva condotto fino ai lembi estremi della periferia di Milano, la dove le ultime abitazioni consegnano l'orizzonte ai bassi profili delle campagne. La macchina vibrava tutta, attraversata dai fremiti che dal suolo salivano attraverso le ruote fino alle lamiere della cabina, imponendo ai finestrini un chiassoso lavorio. A quella vibrazione, ogni oggetto sembrava prendere vita, uniformandosi, ciascuno con le proprie note, ai capricci del nuovo ritmo. Anche la voce del camionista si era unita alla bislacca compagnia, distorcendo le parole in un tremulo vibrato. Avevo fatto tutto il percorso in quella cabina, quasi sempre seduto a cavallo del caldo sarcofago del motore, tra il profumo d'olio surriscaldato e l'aroma della nafta. Sotto quelle lamiere assorbivo il pacifico brontolio del motore, le cui onde energetiche attraversavano tutto il mio corpo, rendendomi partecipe, con quell'entità nascosta la sotto, misteriosa ma amica, alla gioia del viaggio.
Via Parenzo era poco più che
un sentiero campestre; si staccava ad angolo retto da via Ludovico il
Moro, immediatamente dopo il capolinea del diciannove.
La casa era li; quattro
piani, una sola facciata talmente lunga da ospitare due ingressi, due
cortili e due numeri civici. Riposava sdraiata sul lato della via, con la
testa rivolta verso i primi quartieri della città ed i piedi sprofondati
nel verde dei campi. Solo le nuvole potevano abbracciare l'interezza della
sua immensa mole.
Forse per un imprevedibile
vezzo dell'architetto, tutte le finestre erano sottolineate da una cornice
di cemento a rilievo, ma il colore grigio, identico a quello della
facciata, testimoniava un tardivo pudico pentimento. Sui vertici superiori
delle finestre aggettavano piccoli volti leonini, consunti dal sole e
dalla pioggia di troppe stagioni. Il loro sguardo sbiadito passava diritto
sopra i piccoli orti dei tranvieri e dei dazieri, suddivisi senza alcuna
geometria da siepi di bosso, rugginose lamiere ondulate e legni di vecchie
porte. Dalle zolle erbose sbucavano malvolentieri ortaggi d'ogni genere,
accomunati dal disordine tra fusti di lamiera gonfi d'acqua piovana. Nella parte posteriore della casa si allungavano, perpendicolarmente ed essa, le tre ali della costruzione: una posta esattamente a metà, le altre due agli estremi, fornendo all'insieme l'immagine di una grande "E". Era questa la facciata dei due cortili, dei due giochi delle bocce e dei pergolati delle due osterie. Era anche il lato sul quale si affacciavano le ringhiere. Lunghe, diritte, dai parapetti di ferro battuto, sbucavano improvvise dal buio dei pianerottoli, correndo veloci fino a morire a ridosso della porta del cesso, sospeso nel vuoto e soffocato dall'infaticabile tanfo di vecchie urine. I loro lunghi pavimenti oscillavano al passo pesante degli operai che, terminata la giornata, rientravano in casa portandosi la bicicletta in spalla.
In alto, incontrastato
dominatore, gravava il tetto di tegole scolorite, con i suoi innumerevoli
comignoli che esalavano nell'aria l'ansito puzzolente del vecchio gigante.
A quella soglia giungeva
stanco l'ultimo gradino delle scale, fuggito cinque piani più sotto, dalla
terra delle cantine, dalla muffa, dal salnitro e dalla puzza di piscia di
gatto, ove il labirinto dei muri portanti, a malapena illuminati dalle
bocche di lupo, scompariva sospettoso tra le tenebre.
Fu questo il luogo dove
Imparai a conoscere l'inverno con le sue secche foglie inargentate dalla
brina, con la sua neve che t'invitava a giocare arrossandoti le mani e le
ginocchia nude. Attraversai tutta la primavera con la sua pioggia di
stravento, con i suoi cieli grigi adagiati sulla cima dei comignoli, con
le sue nuvole bianche nel cielo di cobalto. Entrai nell'estate con i suoi
muri roventi, con le zanzare, con la solitudine degli amici partiti per le
colonie, con l'allegro chiasso dei temporali. E poi l'autunno, giallo,
marrone, prodigo di doni, che t'insegnava la previdenza con la sorpresa
della prima nebbia mattutina. Provai il tepore odoroso di legna della
stufa, dove lo sputo della saliva esplodeva in un universo di sferule,
friggendo sulla sua piastra rovente. Mi abituai al disagio delle lenzuola
gelate, con il corpo rannicchiato e le braccia strette alle ginocchia.
Assaporai il refrigerio del bagno nel catino di lamiera zincata con
l'acqua intiepidita al sole di luglio. Sprecai tutto il fiato nei vani
inseguimenti dei gatti randagi. Segnai gomiti e ginocchia con le cicatrici
di mille cadute. Porto ancor'oggi la cicatrice di una stagione bella ma
troppo breve, bruciata dallo scorrere inesorabile del tempo, con la
promessa di una maturità che ancora stenta ad annunciarsi.
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