TRAPANI

-"Signor Ceruti, c'è giù una cartolina per lei!"
-Ma cosa diavolo vuole sta' portinaia, non può metterla nella casella della posta come le altre?; mah, andiamo a prenderla.
Era la fine di Settembre. La cartolina, di un sottile cartoncino rosa ostentava senza alcun pudore il mittente: Ministero della Difesa, la finalità: chiamata alle armi, la destinazione: Trapani. In calce una serie di spaventevoli minacce in caso di ritardo o peggio, mancata presentazione all'appuntamento.
-Trapani? Va be', la Puglia non è poi così lontana, pensai. Puglia? Ma no!, Quello è Trani!. Trapani è in Sicilia!........Minchia!
Rientrai in casa con un groppo in gola e le ginocchia gelatinose.
-Che cos'era?, Chiese mia madre.
-Cartolina rosa! l'undici ottobre mi devo trovare a Trapani, parto per il militare.
-Il giorno del tuo compleanno.
-Esatto, hai visto che bel regalo mi fanno?
Mia madre non palesò alcuna emozione particolare: primo per la sua naturale riservatezza, secondo perché le sue cognizioni geografiche non le permettevano di definire cartesianamente dove fosse Trapani, terzo perché, dopo aver sfasciato due automobili nel giro di due mesi, aver combinato la metà di un cazzo all'università, mio padre aveva legittimamente ritenuto che dovessi partire al più presto per il servizio militare, ritirando tutte le proroghe per studio. La cartolina era trepidamente attesa da tutti, tranne che da me.....E poi proprio a Trapani. Non mi andava giù.
Il dieci ottobre, al pomeriggio, una lunga serie di mesti cortei composti da genitori, figli, fratelli, sorelle, nonni e morose, percorse non so più quale binario della stazione Centrale e stazionò davanti al convoglio che sotto il beneaugurante nome di "Concadoro" mascherava invece la più prossima delle sinistre destinazioni: Palermo. Per me si sarebbe trattato di andare ancora oltre.
Il treno si muove! Su i figli, giù tutti gli altri.
La prima parte del viaggio si compì nella notte: pochi avevano voglia di parlare. Qualcuno evocava sinistri spettri aleggianti sul nostro futuro prossimo, catturati dal libro dei "sentito dire". Il sonno si esauriva in sbrigativi pisolini, attraversati dai flash onirici dei momenti più belli lasciati alle spalle. Ti svegliavi intontito, con la bocca impastata. La consapevolezza del dove ti trovavi e dove stavi andando, stentava a farsi largo.
La livida alba ci accolse mostrandoci il paesaggio costiero campano, e poi giù, ancora giù, tra periferie degradate di città ed agrumeti. Solidarizzai con un ebreo, Levi, accomunati dalla stessa destinazione. Con lui festeggiai il compleanno con un pacchetto di caramelle. Poi fu la Calabria, il traghetto, ed infine Palermo. Erano passate esattamente ventiquattro ore dalla partenza da Milano, quando salii sul locale per Trapani, una Littorina. Cento fermate, cento colline da valicare, di nuovo le ombre lunghe del tramonto e poi la fine del viaggio. Ero arrivato. L'aria serale era calda, afosa e portava con se tutti i profumi ancora vivi di un'estate ancora ben presente, confortata dalla presenza del mare. Com'era diversa l'atmosfera grigina e malaticcia che filtrava dalle volte della stazione Centrale, ma come mi sono accorto, ora, di amarla!
Impiegai un buon venti minuti e qualche indicazione da parte dei locali prima giungere al cospetto della porta principale della caserma Giannettino. Facile sarebbe a questo punto ironizzare su dantesche speranze lasciate o sulle facoltà liberatorie del lavoro pubblicizzate dal cinismo nazista. Però quando passai oltre, il mio pensiero corse proprio a quei varchi a quelle demarcazioni tra la vita e la morte. Chissà cosa è passato per la mente dell'ebreo che avevo a fianco! Pur senza eccessive drammatizzazioni, percepii che fuori da quel passaggio lasciavo i primi vent'anni dalla mia vita.

Dalla mattina successiva, presto, ebbero inizio tutte le liturgie dell'iniziazione, fitte fitte, in rapida successione. La prima riguardava la fornitura di tutto l'abbigliamento, a cominciare dalle mutande tattiche così definite per rendere chiaro il fatto che anche i tuoi genitali passavano sotto la tutela dell'esercito il quale poteva disporne a piacimento. Poi via via tutti gli altri capi, estivi e invernali, da fatica e da libera uscita, bustina con visiera e baschetto, scarpe ginniche ed anfibi e così via. Il maresciallo, dopo averti squadrato per individuare la taglia, buttava ai tuoi piedi tutti i capi generando velocemente una informe collinetta marroncina che dal pavimento del magazzino, arrivava a lambirti le ginocchia.
-Devi provare i pantaloni perché se non vanno bene, puoi cambiarli, ma solo entro la mattinata!, poi sono cazzi tuoi.
La marea delle intimidazioni, cominciava sottilmente a montare. Ignoravo che il suo apice avrebbe sarebbe strato tale da far sembrare quelle normanne delle insignificanti pozzanghere. Con efficienza tipicamente meneghina pensai di farlo subito iniziando a slacciare la cintura dei miei ormai agonizzanti pantaloni civili.
-Ma cosa cazzo fai! tuonò il maresciallo, non vedi che in magazzino c'è una signora?
Sospesi l'operazione, mi scusai e scandagliai velocemente il magazzino alla ricerca di questo imprevisto personaggio dell'altro sesso. La individuai in un angolo, dietro una vecchia macchina da cucire: anziana, i capelli raccolti in una crocchia, un grembiulone nero e due baffi di staliniane fattezze. Pensai subito che le mie gambe nude, per quanto, irsute, non avrebbero potuto altro che suscitare ilarità, deducendo che il suo irsutismo sarebbe stato al mio come la foresta pluviale sta al prato all'inglese.
Me ne andai con quel voluminoso fardello al quale furono aggiunti: due zaini, gavetta e gavettino, due piatti di terraglia, posate di allumino, ed un bicchiere, il quale, non potendo io disporre della quinta mano per sostenerlo, cadde al suolo in mille pezzi.
Mi assegnarono la casermetta, la camerata, e la brandina a castello. Depositai tutti i doni ricevuti e mi precipitai di nuovo nel gigantesco cortile per la tosatura. Le attività si susseguivano a ritmo frenetico, come se il giorno dopo avessimo dovuto partire per El Alamein, che poi non era così tanto lontana. Strana è la successione delle attività in caserma. Sopra una spessa coltre di inerzia, dove lentamente si stratifica la sabbia dei lavori trascinati all'infinito, lavori fatti più per regolamento che per necessità, imboscamenti e marce, servizi e riposi, noia e bullismo, a volte vi cade un sasso più grosso, che fa vibrare l'intera caserma per qualche istante, poi tutto torna alla pace cosmica. Il primo giorno in caserma fu quello del sasso grosso.
Eravamo in molti davanti alla barberia, alcuni ancora in abiti civili, altri già in divisa. Lo sguardo perso ed inebetito dei più dava a questa moltitudine le sembianze di un esercito di zombies sorpresi dall'inaspettata e letale apparizione del sole.
-Preferisci il taglio a zero o ti lascio su qualche centimetro? Pochi scelsero la prima opzione. La maggior parte di noi, forse per conservare le vestigia di un passato beatlesiano, preferì la seconda.
Non fu così. Il ronzio della macchinetta elettrica percorse inesorabilmente ad alzo zero tutti i nostri crani, dalla nuca alla fronte, dalla fronte alla nuca, su e giù come un tagliaerba impazzito. Soffici ciocche di capelli cadevano silenziosamente, depositandosi alla base della poltroncina in un mucchio policromo. La rasatura ci rese tutti uguali, come in una danza macabra medievale. Secondo insegnamento della giornata: la presa per il culo, fedele compagna per i prossimi quindici mesi.

Giungemmo così all'ora del rancio. Trovammo tutti noi il tempo per completare il nostro abbigliamento militare con: pantaloni corti più o meno svolazzanti, ampia camicia, bustina con visiera, calzettoni con anfibi.
Il color kaki dell'abbigliamento, si sposava mirabilmente con il testa di moro degli anfibi e con la testa di cazzo delle reclute.
Che si trattasse della palazzina della mensa ti accorgevi molto prima di arrivarci: un alto comignolo sputava fumo nero e fuliggine, diffondendo per l'aria circostante, l'odore dell'olio combustibile con un retrogusto di brodo di dado. All'interno, smisurati tavoloni col piano in formica verde e sgabelli dello stesso colore. Il tutto disposto secondo un preciso ordine geometrico. Potevamo godere del servizio al tavolo dove goffi camerieri in tuta blu da meccanico, trascinando gorgoglianti pentoloni e brandeggiando il mestolo a mo' di clava.depositavano il cibo nel tuo piatto, ostentando un sorriso ed una grazia squisitamente neanderthaliani.
Generalmente il primo piatto consisteva in pasta, di varia foggia, ma sempre al ragù. Esso era confezionato secondo la ricetta classica, unica variante: le mosche al posto della carne. Perché la carne, costituita da informi grumi di grasso, pelle e tendini, doveva servire per secondo. Mi sorpresi di me stesso: abituato al cibo di casa, curato, dai gusti mai eccessivi, il tutto rigorosamente tenero e senza grassi, riuscii a nutrirmi comunque, applicando stoicamente le leggi della sopravvivenza. Dopo il disgusto dei primi ranci, divenne naturale selezionare tutte le mosche presenti nella pasta disponendole, nera decorazione, sul bordo del patto e continuare a mangiare con la più assoluta indifferenza. La carne veniva accuratamente succhiata, laddove la forza muscolare dalla mascella nulla poteva contro la granitica riluttanza a scindersi del boccone. Unico piccolo contributo in riconoscenza della magnanimità di cuochi e cucinieri, era la lavatura di tutto il pentolame della cucina, operazione da noi svolta, all'aperto, nello spiazzo antistante la mensa.

Solo dopo il rancio, trovai il tempo per esplorare la caserma. Era immensa. L'area sulla quale si trovava consisteva in uno smisurato rettangolo chiuso su uno dei lati minori dall'ingresso e dalla palazzina comando. Sui due lati maggiori e separate dalla piazza d'armi, si affacciavano le numerose casermette a loro volta disposte in file parallele, tutte rigorosamente uguali, tutte in mattoni a vista. L'insieme, visto dall'alto, avrebbe potuto rappresentare la disposizione di un esercito napoleonico. In fondo trovavi i campi per le esercitazioni, poi il deposito mezzi, l'officina e quant'altro necessario alla sopravvivenza del titano.
Vi era anche uno spoglio altare in pietra, all'aperto: serviva per le funzioni religiose domenicali. Invero la sua presenza in tale contesto ne snaturava il suo significato cristiano. Aveva un che di sinistro, evocava are sacrificali, i tofet fenici tralaltro ben presenti proprio in quella zona.

Come passai il resto del pomeriggio, non lo ricordo, fu forse un periodo di relativa normalità tale da essere cancellato dalla memoria dal susseguirsi di tante sconvolgenti novità e che si sarebbero esaurite solo con l'arrivo della notte. Salii in camerata per riordinare le quattro cose che avevo depositato in fretta. Queste quattro cose avrebbero rappresentato tutti i miei averi, tutte le mie certezze, tutta la mia vita per il prossimo anno abbondante. Mi sorprendeva questa improvvisa povertà considerando quante e quali fossero state le cose che mi circondavano fino a poche ore prima. Feci conoscenza con cessi e lavatoi. gli uni erano alla turca, lerci, puzzolenti, le pareti rese grigie da sterminate colonie di piccole mosche. Gli altri non buttavano acqua potabile, ma acqua salata che rendeva impossibile sia il bere che l'uso del sapone. Sperimentai nelle serate successive che l'acqua potabile veniva erogata per una mezz'ora al giorno solo dopo il contrappello serale. Era allora un frenetico correre ai rubinetti per catturare con la borraccia, il prezioso liquido, indispensabile per bere. Se poi avanzava tempo, ed acqua potabile, ci si poteva anche lavare e sbarbarsi rinnovando l'evangelico miracolo dell'apparizione della schiuma.
Dopo il rancio serale, in camerata, iniziarono i primi approcci con i nuovi compagni, ora tutti uguali nella perplessità e nello smarrimento, prima così diversi e sconosciuti. Ognuno, un po' per farsi conoscere, ma soprattutto per non troncare di netto quel legame con la realtà passata che dava il conforto di un'illusoria astrazione dall'attuale presente, raccontò di se, per gli altri ma soprattutto per se stesso. La tromba del silenzio mi traghettò in breve tempo alla pace del sonno.
La tromba della sveglia, petulante galletto sempre troppo mattiniero, mi disse che la tregua era finita, si ricominciava.
Al termine del mio soggiorno a Trapani avrei avuto in tasca nient'altro che una piccola e miserabile caricatura della vita: all'inizio hai molto da imparare, poi con l'incedere della maturità, l'abitudine occupa sempre più spazio sul quadrante del tuo orologio, relegando le nuove esperienze alla lancetta dei secondi. Così questo nuovo giorno, pur con tutto il suo inesplorato bagaglio di novità, recava gia in se le piccole larve dell'abitudine.

Il caldo estivo era opprimente, l'afa portata dallo scirocco ti toglieva le forze, la brezza marina non portava alcun sollievo. Sudavi come una fontana e puzzavi come un caprone. E non è che facessi queste grandi fatiche!
La doccia, finalmente! ma una volta alla settimana; l'acqua è troppo preziosa per sprecarla con le reclute. Tutti nudi in fila ad attendere il proprio turno, ovviamente con un minimo di reciproca distanza di sicurezza.
Entri nel tuo box. Il soffione, di rugginosa lamiera zincata, fraziona il getto d'acqua con la fantasia e la creatività di un ubriaco. Sei sotto: un comodo prelavaggio, insaponatura meticolosa e poi Triiiit, un suono di fischietto. Che cazzo sarà? mah, continuiamo ad insaponarci. Triiiit, Triiit, doppio fischietto: mistero!. Bene, ora viene la parte più bella, lo sciacquo, con calma. Cazzo! ma non arriva più l'acqua, ma....porca puttana!
-Fuori dalla doccia, forza! Prepararsi gli altri dieci!, sentenzia il caporale istruttore.
E tu te ne esci, umiliato e quasi in lacrime, ti togli il residuo sapone con l'asciugatoio, ti rivesti con la pelle viscida e profumata di palmolive. Il senso di impotenza di fronte alla nuova presa per il culo ti brucia come il sapone rimasto tra le chiappe. Poi il più esperto, ti spiega la teoria del fischietto: il primo fischio ti da' un minuto per insaponarti, il secondo, due minuti per sciacquarti, poi stop. Ostia, ma non potevano dirlo prima? eh no, questa è la naia!

Fino a quel momento Trapani era una città sconosciuta; una frettolosa corsa dalla stazione alla caserma, di sera attraverso vie sconosciute e poco illuminate, arrivando a destinazione solo con le indicazioni dei locali. Per ottenere la libera uscita, andava rispettato un preciso rituale: la presentazione individuale davanti all'ufficiale di picchetto. Qualifica: recluta, nome e cognome: Rinaldo Ceruti, caserma: Fante Giannettino, Compagnia: terza, comandante della caserma: colonnello Nuvolone. Cooosa? colonnello Nuvolone???. Non fare il cretino, torna indietro e ripresentati domani col nome giusto. Dietro front e avanti march!
Fummo in molti ad essere respinti per colpa di quel nome. La sera passò tra lo spaccio ed il cortilone, dove il gruppo dei friulani, già consolidato in una enclave, intonava i propri canti tradizionali. Io, in contrappunto, a stramaledire il caporale istruttore che aveva ordito lo scherzo, credo monotonamente reiterato ad ogni arrivo di nuove reclute. Il giorno successivo, impresso bene nella memoria il vero nome del comandante, ottenni il sudato Vai!.
Era domenica pomeriggio e la libera uscita si sarebbe protratta fino al contrappello serale. Con me, uno sparuto gruppetto di compagni accomunati da una embrionale e vaga affinità, ancora lontana dal diventare amicizia.
Trapani, seppur capoluogo di provincia, è una piccola cittadina. Occupa fittamente ogni metro quadro di una stretta lingua di terra che si protende verso il mare in direzione delle Egadi. Un ipotetico trasvolatore avrebbe avuto l'impressione che quel dito, rivolto alle isole, lo invitasse perentoriamente ad osservarne la bellezza. La città è attraversata longitudinalmente dal corso principale, via Fardella, sulla quale si affacciano basse costruzioni dalle facciate barocche. Già da allora, isola pedonale ante litteram, il corso veniva chiuso al traffico veicolare per consentire il passeggio pomeridiano della cittadinanza. Lo "struscio" fornisce l'occasione per ostentare, attraverso gli abiti portati per l'occasione, una sorta di illusorio benessere economico, impietosamente smascherato dalle reali condizioni sociali in cui versava la città, assediata, allora come oggi, dal potere mafioso. Era infatti sufficiente allontanarsi di poco dal centro per rendersene conto. Le case diventano più basse, i muri tirati su con mattonelle di tufo, cariati dal tempo e dalla salsedine. Sopra di esse qualche moderno condominio a rivendicare altezzosamente la differenza di censo. La zona allora più degradata, era quella delle puttane, generoso servizio sociale, quasi interamente dedicato agli ospiti della Giannettino. Le case, se tali potevano definirsi, avevano un solo piano, un solo locale, una sola porta, una sola finestra, una sola puttana. Fuori, piccoli capannelli di militari in attesa del loro turno. I prezzi erano sicuramente modesti, del tutto coerenti con l'avvenenza di quelle povere diavole, la cui età poteva benissimo corrispondere a quella delle nostre madri. Le condizioni igieniche erano tali che l'infermeria della caserma era stata dotata di una sala denominata "anticeltica", ove, lungi dal compiersi lo sterminio dei druidi, più prosaicamente si cospargevano i peni, reduci dall' esperienza meretricia, di una rassicurante pomata antibiotica, destinata a fare barriera all'orda selvaggia di gonococchi che premevano sui confini dell'impero. Molti di noi, chi per ragioni etiche, chi per ragioni morali, chi per ragioni estetiche, chi per paura delle malattie, preferì ricorrere ad una stoica astinenza, interrotta, quando la consapevolezza si arrendeva alla disperazione, da un liberatorio autoerotismo.
La parte più bella di Trapani è però......Erice. Antichissimo borgo, cinto da mura puniche, occupa il culmine della collina che sovrastava la città. Vi si accede attraverso una strada oppure con la funivia.
Il panorama che offre, ti mozza il fiato: sotto la lingua di Trapani, poi il mare, e più in la l'arcipelago delle Egadi. La somiglianza di colore tra il cielo ed il mare rendono l'orizzonte difficilmente individuabile. Solo qualche nuvolotto che galleggia all'altezza del tuo sguardo, ti porta a dedurre che almeno li' ci sia il cielo. A sud lo sguardo spazia verso le saline, centinaia di specchi che, incorniciati, mandano i loro riflessi abbacinanti fino ai tuoi occhi. In direzione opposta, la linea della costa è interrotta dalla gigantesca mole del monte Cofano. Alle spalle i brulli e riarsi territori dell'entroterra, dove, poco distanti, fumaavano ancora di polvere le macerie del terremoto del Belice. Erice è un libro aperto sulla storia. Le mura, presso le quali i Cartaginesi accendevano alti falò per segnalare alle loro navi la nuova rotta verso il lato settentrionale della Trinacria. Il castello altomedioevale di Venere Ericina, è costruito sulle rovine di uno dei più importanti templi dell'antichità classica dedicato a Venere. La cattedrale, dalle linee severe,è abbellita da un magnifico pronao sostenuto da due colonne la cui base poggia sulla schiena di una coppia di leoni, corrosi dal tempo e pietrificati dallo sforzo.
Quelle poche ore di riacquistata libertà, mi insegnarono a riconoscere e distillare tutti gli istanti belli che anche le situazioni più sgradevoli nascondono, a volte anche solo per la durata di un attimo. Il rientro in caserma, seppur sempre sgradevole, non fu più senza speranza. Con me ora c'era nuovamente Rinaldo.

La masnada dei caporali istruttori era la vera padrona della caserma. Obbligati per un crudele destino, a trascorre tutta la ferma lontani da casa, tranne rare e sempre troppo brevi licenze, sfogavano con acrimonia il loro rancore sulle inconsapevoli reclute, unicamente colpevoli di avere almeno novantasette probabilità su cento di poter abbandonare Trapani entro due mesi al massimo.
A loro era demandato tutto l'addestramento militare, perlomeno quello di basso profilo. A ciascuno era affidato un discreto gruppo di reclute. Vivevano quindi tutta la giornata con noi, seguendoci passo passo, urlando, sgridando, minacciando. Pur essendo anch'essi truppa, il distacco tra noi e loro era quasi totale. Furono loro ad addestrarci sull'uso delle armi.
Arrivò il primo giorno di esercitazioni di tiro al poligono. Le sagome erano disposte alla base di una collinetta dalla quale si dipartiva un boschetto composto da arbusti e piante di alto fusto, probabile antica dimora di fauni e silfidi. I fucili a disposizione erano vari, a me fu affidato addirittura un moschetto novantuno/trentotto. La sua canna brunita trasudava epopee, il suo rinculo aveva scardinato chissà quante spalle. Angelo custode assassino, mi raccontò delle trincee dell'Adamello, quando la pioggia diventava fango, quando la neve diventava ghiaccio, quando la paura diventava sangue. Mi descrisse le tremule atmosfere del deserto, il rosso disco di Amon-Ra che trascinava sotto l'orizzonte le anime dei soldati morti. Il gelo del Don, macabro ed infaticabile scultore di figure umane nel ghiaccio.
Anche il fante Giannettino probabilmente imbracciava il novantuno, quando rese l'anima sulla spiaggia di Marzanemi a Pachino di Sicilia, avendone però in cambio la dedica di una caserma. Anche qualche recluta imbranata, imbracciava il novantuno, quando incendiò coi traccianti le stoppie del sottobosco, facendo sospendere i tiri, riconvertendo tutti in improvvisati vigili del fuoco.

Inaspettatamente irruppe, sulla nostra rassegnata quiete, il giorno più temuto da ogni militare: la puntura al petto. Tremenda prova di virilità, moderna interpretazione dei gli antichi riti tribali di iniziazione. Alcuni svenivano alla prima spennellata di tintura di iodio, odoroso prologo di un ineluttabile destino foriero di atroci sofferenze. Poi il terribile ago infilato fulmineamente nelle tue carni dal sorriso sadico del tenente medico. Tutto qui? ti domandavi compiaciuto al superamento della prova, quando l'aura di terrore la ritrovavi ai tuoi piedi frantumata in miserabili pezzetti. E' proprio una cazzata, commentavi con gli altri nuovi uomini.
Ancora oggi mi sorprende la poderosa efficacia di quel vaccino, oltre la cui barriera nessun batterio osò avventurarsi per tutta la durata del servizio militare ed anche oltre. C'era poi il gradito premio di tre giorni di riposo in branda, con l'unico limite di non poter usufruire della libera uscita e di sentirsi una mammella più pesante dell'altra.
In quei tre giorni di piacevole ozio, potei osservare dalla finestra della camerata, il giornaliero ripetersi di un desolante rito: l'ora d'aria di un detenuto, obbiettore di coscienza. Il reato era allora considerato della massima infamia, meritevole di una dura condanna da parte del tribunale militare. Non era ammesso che un cittadino potesse concepire modi diversi di servire la società, in alternativa al mestiere delle armi.
Il poveretto, accompagnato da un militare armato, percorreva longitudinalmente il grande cortile avanti, indietro, indietro, avanti, fino all'esaurirsi del tempo assegnatogli. Il percorso doveva rasentare alternativamente i muri e le finestre delle casermette affacciantesi sui due lati del grande rettangolo. Tale scelta era palesemente intenzionale; aveva l'obbiettivo di esporre l'infame al ludibrio degli altri militari, e, in tale situazione, provocarne vergogna e pentimento. I risultati furono esattamente l'opposto di quanto l'ottusità dei comandanti si aspettasse. Da parte nostra emerse un generale sentimento di solidarietà mista ad ammirazione. Lui la sua ribellione, seppur senza speranze, era riuscito a metterla in atto; noi non ne avevamo avuto il coraggio, e stavamo silenziosi alla finestra a guardarlo, piccolo Davide al quale Golia non ha concesso nemmeno il tempo di afferrare la fionda.

La consegna della corrispondenza rappresentava per noi uno dei diversivi più gradevoli della giornata. Avveniva a fine addestramento. Radunati tutti di fronte all' ingresso della casermetta, aveva luogo la distribuzione. Essa avveniva per chiamata, in ordine casuale fino all'esaurimento dell'ultima busta. Vi partecipavi con un sentimento di euforica aspettativa ed anche il caporale istruttore, deputato alla distribuzione, contribuiva a renderla più festosa chiedendo scherzosamente pegno a tutti i destinatari di missive femminili. Col passare dei minuti il numero delle buste restanti si riduceva molto più velocemente di quanto non fosse il capannello dei soldati in attesa. Ultimata la consegna, questo si scioglieva deluso ma fiducioso di una sorte migliore alla prossima distribuzione. I fortunati erano già saliti in camerata, seduti sulla brandina con il foglio in mano e la busta frettolosamente lacerata al fianco.
Fu in una di queste occasioni che ricevetti la lettera più gradita ed inaspettata di tutto il mio soggiorno trapanese: non era la morosa, non era l'assicurata di mio padre con il deca, ma la comunicazione del mio più caro amico che a giorni mi avrebbe raggiunto, pure lui destinato alla Giannettino.
Era Claudio. Mio compagno di banco a scuola, mio compagno di fallimento al politecnico, complice di mille cazzate fatte assieme. Anch'egli era fanatico dei motori ed affermato distruggitore di auto, ma non come me: una sola botta e via. Lui era più fine: un colpo oggi al paraurti, una sospensione piegata domani, un volo nel fosso il giorno dopo e così via, ed io perenne testimone. L'auto, una celestina Opel Kadett prima serie, stretta stretta, alta alta, squadrata come solo il senso estetico teutonico di allora poteva concepirla, era di suo padre.
La nostra amicizia continuò ancora per svariati anni, poi si affievolì per cause esterne alla nostra reciproca buona volontà. Ora ci si incontra solo in occasione dei funerali (altrui), ci si promette una imminente rimpatriata, e poi silenzio fino al prossimo funerale (altrui), a rinnovare una promessa che nessuno dei due ha più voglia di mantenere.
Lo attesi per giorni davanti alla porta centrale, e finalmente arrivò. Da quel giorno la vita di caserma divenne molto ma molto più sopportabile. Il destino ci aveva concesso il raro privilegio di poter disporre in ogni momento del più efficace antidoto da contrapporre all'inutilità di quella esperienza, l'amicizia vera.

Tutte le piccole cerimonie previste al car, hanno un loro momento di unione, un punto in cui esse confluiscono, singoli strumenti musicali, in un pieno orchestrale, in un finale sinfonico. Ogni liturgia congegnata dalla fantasia umana si muove secondo schemi molto simili: esistono i sommi sacerdoti, esistono gli adepti, esistono i riti, esistono i costumi, esistono i templi, esiste l'apoteosi finale, il trionfo che glorifica e giustifica tutti i contenuti: Il giuramento.
I preparativi iniziarono con dovuto anticipo rispetto alla data prevista. In caserma si respirava un aria di mobilitazione generale: sull'inerzia condivisa, era caduto il sasso più grosso. Ufficiali, sottufficiali, caporali istruttori, si muovevano freneticamente con una motivazione direttamente proporzionale al grado. Presentat-arm!, fronte dest!, fronte sinist!, dest.riga!, per fila dest!, per fila sinist!, avanti march!, stai punito!, si susseguivano con perentori scatti della voce. I piccoli greggi manovrati dai caporali istruttori, confluivano nel gregge più grande pungolato dal sottufficiale. Tutti i greggi dei sottufficiali si compattavano in una unico gigantesco armento, ove gli ufficiali ne stabilivano i confini secondo predefinite linee ortogonali, ottemperando così all'antico assioma medievale: simmetria uguale morte, vera essenza di questa religione.
Una perentoria raccomandazione usciva dalle bocche di chiunque avesse incarichi di comando: durante la cerimonia vera, all'apice della professione di fede, ogni adepto doveva gridare: lo giuro! L'insieme doveva risultare un volitivo boato. Guai a chi avesse osato storpiarlo in un più fisiologico e carnale: l'ho duro!
Sia i miei genitori che quelli di Claudio, si organizzarono per essere presenti a Trapani il giorno del giuramento, spinti soprattutto dal desiderio di ricongiungersi, seppur temporaneamente, con i rispettivi figli. Il viaggio di andata lo fecero in aereo, il ritorno in vagone letto. Solo uno sviscerato amore spinse mia madre ad affrontare e superare il terrore del vuoto sotto i piedi ed a salire sull'aereo, lei che anche in seggiovia guardava dentro la borsetta aperta, pur di non vedere il baratro di due metri scarsi che la separavano dai prati sottostanti. Ancora oggi le sono grato per quel gesto di abnegazione. Come da copione, la cerimonia si concluse con il possente boato, invero dal significato acusticamente poco comprensibile. Da parte mia scelsi una terza variante al grido, con un convinto: fan'culo!

Me ne andai da Trapani il due di dicembre, sotto la grandine di un temporale all'ultimo dei due giorni di appello per l'assegnazione ai reggimenti. La mia destinazione fu l'ultima dell'elenco: Quarto reggimento di artiglieria pesante campale, Trento. Il mio vicino di brandina, friulano di Cormons, bravo e taciturno, fu uno dei prescelti per restare come caporale istruttore. Lo sentii quell'ultima notte piangere sommessamente e non fui capace di consolarlo, perché forse non c'era nessun modo per farlo. Claudio era gia partito da due giorni per Trieste.

 

Rinaldo
(19.12.2006)