| -"Signor 
      Ceruti, c'è giù una cartolina per lei!" -Ma cosa diavolo vuole sta' portinaia, non può metterla nella casella 
      della posta come le altre?; mah, andiamo a prenderla.
 Era la fine di Settembre. La cartolina, di un sottile cartoncino rosa 
      ostentava senza alcun pudore il mittente: Ministero della Difesa, la 
      finalità: chiamata alle armi, la destinazione: Trapani. In calce una serie 
      di spaventevoli minacce in caso di ritardo o peggio, mancata presentazione 
      all'appuntamento.
 -Trapani? Va be', la Puglia non è poi così lontana, pensai. Puglia? Ma 
      no!, Quello è Trani!. Trapani è in Sicilia!........Minchia!
 Rientrai in casa con un groppo in gola e le ginocchia gelatinose.
 -Che cos'era?, Chiese mia madre.
 -Cartolina rosa! l'undici ottobre mi devo trovare a Trapani, parto per il 
      militare.
 -Il giorno del tuo compleanno.
 -Esatto, hai visto che bel regalo mi fanno?
 Mia madre non palesò alcuna emozione particolare: primo per la sua 
      naturale riservatezza, secondo perché le sue cognizioni geografiche non le 
      permettevano di definire cartesianamente dove fosse Trapani, terzo perché, 
      dopo aver sfasciato due automobili nel giro di due mesi, aver combinato la 
      metà di un cazzo all'università, mio padre aveva legittimamente ritenuto 
      che dovessi partire al più presto per il servizio militare, ritirando 
      tutte le proroghe per studio. La cartolina era trepidamente attesa da 
      tutti, tranne che da me.....E poi proprio a Trapani. Non mi andava giù.
 Il dieci ottobre, al pomeriggio, una lunga serie di mesti cortei composti 
      da genitori, figli, fratelli, sorelle, nonni e morose, percorse non so più 
      quale binario della stazione Centrale e stazionò davanti al convoglio che 
      sotto il beneaugurante nome di "Concadoro" mascherava invece la più 
      prossima delle sinistre destinazioni: Palermo. Per me si sarebbe trattato 
      di andare ancora oltre.
 Il treno si muove! Su i figli, giù tutti gli altri.
 La prima parte del viaggio si compì nella notte: pochi avevano voglia di 
      parlare. Qualcuno evocava sinistri spettri aleggianti sul nostro futuro 
      prossimo, catturati dal libro dei "sentito dire". Il sonno si esauriva in 
      sbrigativi pisolini, attraversati dai flash onirici dei momenti più belli 
      lasciati alle spalle. Ti svegliavi intontito, con la bocca impastata. La 
      consapevolezza del dove ti trovavi e dove stavi andando, stentava a farsi 
      largo.
 La livida alba ci accolse mostrandoci il paesaggio costiero campano, e poi 
      giù, ancora giù, tra periferie degradate di città ed agrumeti. 
      Solidarizzai con un ebreo, Levi, accomunati dalla stessa destinazione. Con 
      lui festeggiai il compleanno con un pacchetto di caramelle. Poi fu la 
      Calabria, il traghetto, ed infine Palermo. Erano passate esattamente 
      ventiquattro ore dalla partenza da Milano, quando salii sul locale per 
      Trapani, una Littorina. Cento fermate, cento colline da valicare, di nuovo 
      le ombre lunghe del tramonto e poi la fine del viaggio. Ero arrivato. 
      L'aria serale era calda, afosa e portava con se tutti i profumi ancora 
      vivi di un'estate ancora ben presente, confortata dalla presenza del mare. 
      Com'era diversa l'atmosfera grigina e malaticcia che filtrava dalle volte 
      della stazione Centrale, ma come mi sono accorto, ora, di amarla!
 Impiegai un buon venti minuti e qualche indicazione da parte dei locali 
      prima giungere al cospetto della porta principale della caserma 
      Giannettino. Facile sarebbe a questo punto ironizzare su dantesche 
      speranze lasciate o sulle facoltà liberatorie del lavoro pubblicizzate dal 
      cinismo nazista. Però quando passai oltre, il mio pensiero corse proprio a 
      quei varchi a quelle demarcazioni tra la vita e la morte. Chissà cosa è 
      passato per la mente dell'ebreo che avevo a fianco! Pur senza eccessive 
      drammatizzazioni, percepii che fuori da quel passaggio lasciavo i primi 
      vent'anni dalla mia vita.
 
 Dalla mattina successiva, presto, ebbero inizio tutte le liturgie 
      dell'iniziazione, fitte fitte, in rapida successione. La prima riguardava 
      la fornitura di tutto l'abbigliamento, a cominciare dalle mutande tattiche 
      così definite per rendere chiaro il fatto che anche i tuoi genitali 
      passavano sotto la tutela dell'esercito il quale poteva disporne a 
      piacimento. Poi via via tutti gli altri capi, estivi e invernali, da 
      fatica e da libera uscita, bustina con visiera e baschetto, scarpe 
      ginniche ed anfibi e così via. Il maresciallo, dopo averti squadrato per 
      individuare la taglia, buttava ai tuoi piedi tutti i capi generando 
      velocemente una informe collinetta marroncina che dal pavimento del 
      magazzino, arrivava a lambirti le ginocchia.
 -Devi provare i pantaloni perché se non vanno bene, puoi cambiarli, ma 
      solo entro la mattinata!, poi sono cazzi tuoi.
 La marea delle intimidazioni, cominciava sottilmente a montare. Ignoravo 
      che il suo apice avrebbe sarebbe strato tale da far sembrare quelle 
      normanne delle insignificanti pozzanghere. Con efficienza tipicamente 
      meneghina pensai di farlo subito iniziando a slacciare la cintura dei miei 
      ormai agonizzanti pantaloni civili.
 -Ma cosa cazzo fai! tuonò il maresciallo, non vedi che in magazzino c'è 
      una signora?
 Sospesi l'operazione, mi scusai e scandagliai velocemente il magazzino 
      alla ricerca di questo imprevisto personaggio dell'altro sesso. La 
      individuai in un angolo, dietro una vecchia macchina da cucire: anziana, i 
      capelli raccolti in una crocchia, un grembiulone nero e due baffi di 
      staliniane fattezze. Pensai subito che le mie gambe nude, per quanto, 
      irsute, non avrebbero potuto altro che suscitare ilarità, deducendo che il 
      suo irsutismo sarebbe stato al mio come la foresta pluviale sta al prato 
      all'inglese.
 Me ne andai con quel voluminoso fardello al quale furono aggiunti: due 
      zaini, gavetta e gavettino, due piatti di terraglia, posate di allumino, 
      ed un bicchiere, il quale, non potendo io disporre della quinta mano per 
      sostenerlo, cadde al suolo in mille pezzi.
 Mi assegnarono la casermetta, la camerata, e la brandina a castello. 
      Depositai tutti i doni ricevuti e mi precipitai di nuovo nel gigantesco 
      cortile per la tosatura. Le attività si susseguivano a ritmo frenetico, 
      come se il giorno dopo avessimo dovuto partire per El Alamein, che poi non 
      era così tanto lontana. Strana è la successione delle attività in caserma. 
      Sopra una spessa coltre di inerzia, dove lentamente si stratifica la 
      sabbia dei lavori trascinati all'infinito, lavori fatti più per 
      regolamento che per necessità, imboscamenti e marce, servizi e riposi, 
      noia e bullismo, a volte vi cade un sasso più grosso, che fa vibrare 
      l'intera caserma per qualche istante, poi tutto torna alla pace cosmica. 
      Il primo giorno in caserma fu quello del sasso grosso.
 Eravamo in molti davanti alla barberia, alcuni ancora in abiti civili, 
      altri già in divisa. Lo sguardo perso ed inebetito dei più dava a questa 
      moltitudine le sembianze di un esercito di zombies sorpresi 
      dall'inaspettata e letale apparizione del sole.
 -Preferisci il taglio a zero o ti lascio su qualche centimetro? Pochi 
      scelsero la prima opzione. La maggior parte di noi, forse per conservare 
      le vestigia di un passato beatlesiano, preferì la seconda.
 Non fu così. Il ronzio della macchinetta elettrica percorse 
      inesorabilmente ad alzo zero tutti i nostri crani, dalla nuca alla fronte, 
      dalla fronte alla nuca, su e giù come un tagliaerba impazzito. Soffici 
      ciocche di capelli cadevano silenziosamente, depositandosi alla base della 
      poltroncina in un mucchio policromo. La rasatura ci rese tutti uguali, 
      come in una danza macabra medievale. Secondo insegnamento della giornata: 
      la presa per il culo, fedele compagna per i prossimi quindici mesi.
 
 Giungemmo così all'ora del rancio. Trovammo tutti noi il tempo per 
      completare il nostro abbigliamento militare con: pantaloni corti più o 
      meno svolazzanti, ampia camicia, bustina con visiera, calzettoni con 
      anfibi.
 Il color kaki dell'abbigliamento, si sposava mirabilmente con il testa di 
      moro degli anfibi e con la testa di cazzo delle reclute.
 Che si trattasse della palazzina della mensa ti accorgevi molto prima di 
      arrivarci: un alto comignolo sputava fumo nero e fuliggine, diffondendo 
      per l'aria circostante, l'odore dell'olio combustibile con un retrogusto 
      di brodo di dado. All'interno, smisurati tavoloni col piano in formica 
      verde e sgabelli dello stesso colore. Il tutto disposto secondo un preciso 
      ordine geometrico. Potevamo godere del servizio al tavolo dove goffi 
      camerieri in tuta blu da meccanico, trascinando gorgoglianti pentoloni e 
      brandeggiando il mestolo a mo' di clava.depositavano il cibo nel tuo 
      piatto, ostentando un sorriso ed una grazia squisitamente neanderthaliani.
 Generalmente il primo piatto consisteva in pasta, di varia foggia, ma 
      sempre al ragù. Esso era confezionato secondo la ricetta classica, unica 
      variante: le mosche al posto della carne. Perché la carne, costituita da 
      informi grumi di grasso, pelle e tendini, doveva servire per secondo. Mi 
      sorpresi di me stesso: abituato al cibo di casa, curato, dai gusti mai 
      eccessivi, il tutto rigorosamente tenero e senza grassi, riuscii a 
      nutrirmi comunque, applicando stoicamente le leggi della sopravvivenza. 
      Dopo il disgusto dei primi ranci, divenne naturale selezionare tutte le 
      mosche presenti nella pasta disponendole, nera decorazione, sul bordo del 
      patto e continuare a mangiare con la più assoluta indifferenza. La carne 
      veniva accuratamente succhiata, laddove la forza muscolare dalla mascella 
      nulla poteva contro la granitica riluttanza a scindersi del boccone. Unico 
      piccolo contributo in riconoscenza della magnanimità di cuochi e 
      cucinieri, era la lavatura di tutto il pentolame della cucina, operazione 
      da noi svolta, all'aperto, nello spiazzo antistante la mensa.
 
 Solo dopo il rancio, trovai il tempo per esplorare la caserma. Era 
      immensa. L'area sulla quale si trovava consisteva in uno smisurato 
      rettangolo chiuso su uno dei lati minori dall'ingresso e dalla palazzina 
      comando. Sui due lati maggiori e separate dalla piazza d'armi, si 
      affacciavano le numerose casermette a loro volta disposte in file 
      parallele, tutte rigorosamente uguali, tutte in mattoni a vista. 
      L'insieme, visto dall'alto, avrebbe potuto rappresentare la disposizione 
      di un esercito napoleonico. In fondo trovavi i campi per le esercitazioni, 
      poi il deposito mezzi, l'officina e quant'altro necessario alla 
      sopravvivenza del titano.
 Vi era anche uno spoglio altare in pietra, all'aperto: serviva per le 
      funzioni religiose domenicali. Invero la sua presenza in tale contesto ne 
      snaturava il suo significato cristiano. Aveva un che di sinistro, evocava 
      are sacrificali, i tofet fenici tralaltro ben presenti proprio in quella 
      zona.
 
 Come passai il resto del pomeriggio, non lo ricordo, fu forse un periodo 
      di relativa normalità tale da essere cancellato dalla memoria dal 
      susseguirsi di tante sconvolgenti novità e che si sarebbero esaurite solo 
      con l'arrivo della notte. Salii in camerata per riordinare le quattro cose 
      che avevo depositato in fretta. Queste quattro cose avrebbero 
      rappresentato tutti i miei averi, tutte le mie certezze, tutta la mia vita 
      per il prossimo anno abbondante. Mi sorprendeva questa improvvisa povertà 
      considerando quante e quali fossero state le cose che mi circondavano fino 
      a poche ore prima. Feci conoscenza con cessi e lavatoi. gli uni erano alla 
      turca, lerci, puzzolenti, le pareti rese grigie da sterminate colonie di 
      piccole mosche. Gli altri non buttavano acqua potabile, ma acqua salata 
      che rendeva impossibile sia il bere che l'uso del sapone. Sperimentai 
      nelle serate successive che l'acqua potabile veniva erogata per una 
      mezz'ora al giorno solo dopo il contrappello serale. Era allora un 
      frenetico correre ai rubinetti per catturare con la borraccia, il prezioso 
      liquido, indispensabile per bere. Se poi avanzava tempo, ed acqua 
      potabile, ci si poteva anche lavare e sbarbarsi rinnovando l'evangelico 
      miracolo dell'apparizione della schiuma.
 Dopo il rancio serale, in camerata, iniziarono i primi approcci con i 
      nuovi compagni, ora tutti uguali nella perplessità e nello smarrimento, 
      prima così diversi e sconosciuti. Ognuno, un po' per farsi conoscere, ma 
      soprattutto per non troncare di netto quel legame con la realtà passata 
      che dava il conforto di un'illusoria astrazione dall'attuale presente, 
      raccontò di se, per gli altri ma soprattutto per se stesso. La tromba del 
      silenzio mi traghettò in breve tempo alla pace del sonno.
 La tromba della sveglia, petulante galletto sempre troppo mattiniero, mi 
      disse che la tregua era finita, si ricominciava.
 Al termine del mio soggiorno a Trapani avrei avuto in tasca nient'altro 
      che una piccola e miserabile caricatura della vita: all'inizio hai molto 
      da imparare, poi con l'incedere della maturità, l'abitudine occupa sempre 
      più spazio sul quadrante del tuo orologio, relegando le nuove esperienze 
      alla lancetta dei secondi. Così questo nuovo giorno, pur con tutto il suo 
      inesplorato bagaglio di novità, recava gia in se le piccole larve 
      dell'abitudine.
 
 Il caldo estivo era opprimente, l'afa portata dallo scirocco ti toglieva 
      le forze, la brezza marina non portava alcun sollievo. Sudavi come una 
      fontana e puzzavi come un caprone. E non è che facessi queste grandi 
      fatiche!
 La doccia, finalmente! ma una volta alla settimana; l'acqua è troppo 
      preziosa per sprecarla con le reclute. Tutti nudi in fila ad attendere il 
      proprio turno, ovviamente con un minimo di reciproca distanza di 
      sicurezza.
 Entri nel tuo box. Il soffione, di rugginosa lamiera zincata, fraziona il 
      getto d'acqua con la fantasia e la creatività di un ubriaco. Sei sotto: un 
      comodo prelavaggio, insaponatura meticolosa e poi Triiiit, un suono di 
      fischietto. Che cazzo sarà? mah, continuiamo ad insaponarci. Triiiit, 
      Triiit, doppio fischietto: mistero!. Bene, ora viene la parte più bella, 
      lo sciacquo, con calma. Cazzo! ma non arriva più l'acqua, ma....porca 
      puttana!
 -Fuori dalla doccia, forza! Prepararsi gli altri dieci!, sentenzia il 
      caporale istruttore.
 E tu te ne esci, umiliato e quasi in lacrime, ti togli il residuo sapone 
      con l'asciugatoio, ti rivesti con la pelle viscida e profumata di 
      palmolive. Il senso di impotenza di fronte alla nuova presa per il culo ti 
      brucia come il sapone rimasto tra le chiappe. Poi il più esperto, ti 
      spiega la teoria del fischietto: il primo fischio ti da' un minuto per 
      insaponarti, il secondo, due minuti per sciacquarti, poi stop. Ostia, ma 
      non potevano dirlo prima? eh no, questa è la naia!
 
 Fino a quel momento Trapani era una città sconosciuta; una frettolosa 
      corsa dalla stazione alla caserma, di sera attraverso vie sconosciute e 
      poco illuminate, arrivando a destinazione solo con le indicazioni dei 
      locali. Per ottenere la libera uscita, andava rispettato un preciso 
      rituale: la presentazione individuale davanti all'ufficiale di picchetto. 
      Qualifica: recluta, nome e cognome: Rinaldo Ceruti, caserma: Fante 
      Giannettino, Compagnia: terza, comandante della caserma: colonnello 
      Nuvolone. Cooosa? colonnello Nuvolone???. Non fare il cretino, torna 
      indietro e ripresentati domani col nome giusto. Dietro front e avanti 
      march!
 Fummo in molti ad essere respinti per colpa di quel nome. La sera passò 
      tra lo spaccio ed il cortilone, dove il gruppo dei friulani, già 
      consolidato in una enclave, intonava i propri canti tradizionali. Io, in 
      contrappunto, a stramaledire il caporale istruttore che aveva ordito lo 
      scherzo, credo monotonamente reiterato ad ogni arrivo di nuove reclute. Il 
      giorno successivo, impresso bene nella memoria il vero nome del 
      comandante, ottenni il sudato Vai!.
 Era domenica pomeriggio e la libera uscita si sarebbe protratta fino al 
      contrappello serale. Con me, uno sparuto gruppetto di compagni accomunati 
      da una embrionale e vaga affinità, ancora lontana dal diventare amicizia.
 Trapani, seppur capoluogo di provincia, è una piccola cittadina. Occupa 
      fittamente ogni metro quadro di una stretta lingua di terra che si 
      protende verso il mare in direzione delle Egadi. Un ipotetico trasvolatore 
      avrebbe avuto l'impressione che quel dito, rivolto alle isole, lo 
      invitasse perentoriamente ad osservarne la bellezza. La città è 
      attraversata longitudinalmente dal corso principale, via Fardella, sulla 
      quale si affacciano basse costruzioni dalle facciate barocche. Già da 
      allora, isola pedonale ante litteram, il corso veniva chiuso al traffico 
      veicolare per consentire il passeggio pomeridiano della cittadinanza. Lo 
      "struscio" fornisce l'occasione per ostentare, attraverso gli abiti 
      portati per l'occasione, una sorta di illusorio benessere economico, 
      impietosamente smascherato dalle reali condizioni sociali in cui versava 
      la città, assediata, allora come oggi, dal potere mafioso. Era infatti 
      sufficiente allontanarsi di poco dal centro per rendersene conto. Le case 
      diventano più basse, i muri tirati su con mattonelle di tufo, cariati dal 
      tempo e dalla salsedine. Sopra di esse qualche moderno condominio a 
      rivendicare altezzosamente la differenza di censo. La zona allora più 
      degradata, era quella delle puttane, generoso servizio sociale, quasi 
      interamente dedicato agli ospiti della Giannettino. Le case, se tali 
      potevano definirsi, avevano un solo piano, un solo locale, una sola porta, 
      una sola finestra, una sola puttana. Fuori, piccoli capannelli di militari 
      in attesa del loro turno. I prezzi erano sicuramente modesti, del tutto 
      coerenti con l'avvenenza di quelle povere diavole, la cui età poteva 
      benissimo corrispondere a quella delle nostre madri. Le condizioni 
      igieniche erano tali che l'infermeria della caserma era stata dotata di 
      una sala denominata "anticeltica", ove, lungi dal compiersi lo sterminio 
      dei druidi, più prosaicamente si cospargevano i peni, reduci dall' 
      esperienza meretricia, di una rassicurante pomata antibiotica, destinata a 
      fare barriera all'orda selvaggia di gonococchi che premevano sui confini 
      dell'impero. Molti di noi, chi per ragioni etiche, chi per ragioni morali, 
      chi per ragioni estetiche, chi per paura delle malattie, preferì ricorrere 
      ad una stoica astinenza, interrotta, quando la consapevolezza si arrendeva 
      alla disperazione, da un liberatorio autoerotismo.
 La parte più bella di Trapani è però......Erice. Antichissimo borgo, cinto 
      da mura puniche, occupa il culmine della collina che sovrastava la città. 
      Vi si accede attraverso una strada oppure con la funivia.
 Il panorama che offre, ti mozza il fiato: sotto la lingua di Trapani, poi 
      il mare, e più in la l'arcipelago delle Egadi. La somiglianza di colore 
      tra il cielo ed il mare rendono l'orizzonte difficilmente individuabile. 
      Solo qualche nuvolotto che galleggia all'altezza del tuo sguardo, ti porta 
      a dedurre che almeno li' ci sia il cielo. A sud lo sguardo spazia verso le 
      saline, centinaia di specchi che, incorniciati, mandano i loro riflessi 
      abbacinanti fino ai tuoi occhi. In direzione opposta, la linea della costa 
      è interrotta dalla gigantesca mole del monte Cofano. Alle spalle i brulli 
      e riarsi territori dell'entroterra, dove, poco distanti, fumaavano ancora 
      di polvere le macerie del terremoto del Belice. Erice è un libro aperto 
      sulla storia. Le mura, presso le quali i Cartaginesi accendevano alti falò 
      per segnalare alle loro navi la nuova rotta verso il lato settentrionale 
      della Trinacria. Il castello altomedioevale di Venere Ericina, è costruito 
      sulle rovine di uno dei più importanti templi dell'antichità classica 
      dedicato a Venere. La cattedrale, dalle linee severe,è abbellita da un 
      magnifico pronao sostenuto da due colonne la cui base poggia sulla schiena 
      di una coppia di leoni, corrosi dal tempo e pietrificati dallo sforzo.
 Quelle poche ore di riacquistata libertà, mi insegnarono a riconoscere e 
      distillare tutti gli istanti belli che anche le situazioni più sgradevoli 
      nascondono, a volte anche solo per la durata di un attimo. Il rientro in 
      caserma, seppur sempre sgradevole, non fu più senza speranza. Con me ora 
      c'era nuovamente Rinaldo.
 
 La masnada dei caporali istruttori era la vera padrona della caserma. 
      Obbligati per un crudele destino, a trascorre tutta la ferma lontani da 
      casa, tranne rare e sempre troppo brevi licenze, sfogavano con acrimonia 
      il loro rancore sulle inconsapevoli reclute, unicamente colpevoli di avere 
      almeno novantasette probabilità su cento di poter abbandonare Trapani 
      entro due mesi al massimo.
 A loro era demandato tutto l'addestramento militare, perlomeno quello di 
      basso profilo. A ciascuno era affidato un discreto gruppo di reclute. 
      Vivevano quindi tutta la giornata con noi, seguendoci passo passo, 
      urlando, sgridando, minacciando. Pur essendo anch'essi truppa, il distacco 
      tra noi e loro era quasi totale. Furono loro ad addestrarci sull'uso delle 
      armi.
 Arrivò il primo giorno di esercitazioni di tiro al poligono. Le sagome 
      erano disposte alla base di una collinetta dalla quale si dipartiva un 
      boschetto composto da arbusti e piante di alto fusto, probabile antica 
      dimora di fauni e silfidi. I fucili a disposizione erano vari, a me fu 
      affidato addirittura un moschetto novantuno/trentotto. La sua canna 
      brunita trasudava epopee, il suo rinculo aveva scardinato chissà quante 
      spalle. Angelo custode assassino, mi raccontò delle trincee dell'Adamello, 
      quando la pioggia diventava fango, quando la neve diventava ghiaccio, 
      quando la paura diventava sangue. Mi descrisse le tremule atmosfere del 
      deserto, il rosso disco di Amon-Ra che trascinava sotto l'orizzonte le 
      anime dei soldati morti. Il gelo del Don, macabro ed infaticabile scultore 
      di figure umane nel ghiaccio.
 Anche il fante Giannettino probabilmente imbracciava il novantuno, quando 
      rese l'anima sulla spiaggia di Marzanemi a Pachino di Sicilia, avendone 
      però in cambio la dedica di una caserma. Anche qualche recluta imbranata, 
      imbracciava il novantuno, quando incendiò coi traccianti le stoppie del 
      sottobosco, facendo sospendere i tiri, riconvertendo tutti in improvvisati 
      vigili del fuoco.
 
 Inaspettatamente irruppe, sulla nostra rassegnata quiete, il giorno più 
      temuto da ogni militare: la puntura al petto. Tremenda prova di virilità, 
      moderna interpretazione dei gli antichi riti tribali di iniziazione. 
      Alcuni svenivano alla prima spennellata di tintura di iodio, odoroso 
      prologo di un ineluttabile destino foriero di atroci sofferenze. Poi il 
      terribile ago infilato fulmineamente nelle tue carni dal sorriso sadico 
      del tenente medico. Tutto qui? ti domandavi compiaciuto al superamento 
      della prova, quando l'aura di terrore la ritrovavi ai tuoi piedi 
      frantumata in miserabili pezzetti. E' proprio una cazzata, commentavi con 
      gli altri nuovi uomini.
 Ancora oggi mi sorprende la poderosa efficacia di quel vaccino, oltre la 
      cui barriera nessun batterio osò avventurarsi per tutta la durata del 
      servizio militare ed anche oltre. C'era poi il gradito premio di tre 
      giorni di riposo in branda, con l'unico limite di non poter usufruire 
      della libera uscita e di sentirsi una mammella più pesante dell'altra.
 In quei tre giorni di piacevole ozio, potei osservare dalla finestra della 
      camerata, il giornaliero ripetersi di un desolante rito: l'ora d'aria di 
      un detenuto, obbiettore di coscienza. Il reato era allora considerato 
      della massima infamia, meritevole di una dura condanna da parte del 
      tribunale militare. Non era ammesso che un cittadino potesse concepire 
      modi diversi di servire la società, in alternativa al mestiere delle armi.
 Il poveretto, accompagnato da un militare armato, percorreva 
      longitudinalmente il grande cortile avanti, indietro, indietro, avanti, 
      fino all'esaurirsi del tempo assegnatogli. Il percorso doveva rasentare 
      alternativamente i muri e le finestre delle casermette affacciantesi sui 
      due lati del grande rettangolo. Tale scelta era palesemente intenzionale; 
      aveva l'obbiettivo di esporre l'infame al ludibrio degli altri militari, 
      e, in tale situazione, provocarne vergogna e pentimento. I risultati 
      furono esattamente l'opposto di quanto l'ottusità dei comandanti si 
      aspettasse. Da parte nostra emerse un generale sentimento di solidarietà 
      mista ad ammirazione. Lui la sua ribellione, seppur senza speranze, era 
      riuscito a metterla in atto; noi non ne avevamo avuto il coraggio, e 
      stavamo silenziosi alla finestra a guardarlo, piccolo Davide al quale 
      Golia non ha concesso nemmeno il tempo di afferrare la fionda.
 
 La consegna della corrispondenza rappresentava per noi uno dei diversivi 
      più gradevoli della giornata. Avveniva a fine addestramento. Radunati 
      tutti di fronte all' ingresso della casermetta, aveva luogo la 
      distribuzione. Essa avveniva per chiamata, in ordine casuale fino 
      all'esaurimento dell'ultima busta. Vi partecipavi con un sentimento di 
      euforica aspettativa ed anche il caporale istruttore, deputato alla 
      distribuzione, contribuiva a renderla più festosa chiedendo scherzosamente 
      pegno a tutti i destinatari di missive femminili. Col passare dei minuti 
      il numero delle buste restanti si riduceva molto più velocemente di quanto 
      non fosse il capannello dei soldati in attesa. Ultimata la consegna, 
      questo si scioglieva deluso ma fiducioso di una sorte migliore alla 
      prossima distribuzione. I fortunati erano già saliti in camerata, seduti 
      sulla brandina con il foglio in mano e la busta frettolosamente lacerata 
      al fianco.
 Fu in una di queste occasioni che ricevetti la lettera più gradita ed 
      inaspettata di tutto il mio soggiorno trapanese: non era la morosa, non 
      era l'assicurata di mio padre con il deca, ma la comunicazione del mio più 
      caro amico che a giorni mi avrebbe raggiunto, pure lui destinato alla 
      Giannettino.
 Era Claudio. Mio compagno di banco a scuola, mio compagno di fallimento al 
      politecnico, complice di mille cazzate fatte assieme. Anch'egli era 
      fanatico dei motori ed affermato distruggitore di auto, ma non come me: 
      una sola botta e via. Lui era più fine: un colpo oggi al paraurti, una 
      sospensione piegata domani, un volo nel fosso il giorno dopo e così via, 
      ed io perenne testimone. L'auto, una celestina Opel Kadett prima serie, 
      stretta stretta, alta alta, squadrata come solo il senso estetico 
      teutonico di allora poteva concepirla, era di suo padre.
 La nostra amicizia continuò ancora per svariati anni, poi si affievolì per 
      cause esterne alla nostra reciproca buona volontà. Ora ci si incontra solo 
      in occasione dei funerali (altrui), ci si promette una imminente 
      rimpatriata, e poi silenzio fino al prossimo funerale (altrui), a 
      rinnovare una promessa che nessuno dei due ha più voglia di mantenere.
 Lo attesi per giorni davanti alla porta centrale, e finalmente arrivò. Da 
      quel giorno la vita di caserma divenne molto ma molto più sopportabile. Il 
      destino ci aveva concesso il raro privilegio di poter disporre in ogni 
      momento del più efficace antidoto da contrapporre all'inutilità di quella 
      esperienza, l'amicizia vera.
 
 Tutte le piccole cerimonie previste al car, hanno un loro momento di 
      unione, un punto in cui esse confluiscono, singoli strumenti musicali, in 
      un pieno orchestrale, in un finale sinfonico. Ogni liturgia congegnata 
      dalla fantasia umana si muove secondo schemi molto simili: esistono i 
      sommi sacerdoti, esistono gli adepti, esistono i riti, esistono i costumi, 
      esistono i templi, esiste l'apoteosi finale, il trionfo che glorifica e 
      giustifica tutti i contenuti: Il giuramento.
 I preparativi iniziarono con dovuto anticipo rispetto alla data prevista. 
      In caserma si respirava un aria di mobilitazione generale: sull'inerzia 
      condivisa, era caduto il sasso più grosso. Ufficiali, sottufficiali, 
      caporali istruttori, si muovevano freneticamente con una motivazione 
      direttamente proporzionale al grado. Presentat-arm!, fronte dest!, fronte 
      sinist!, dest.riga!, per fila dest!, per fila sinist!, avanti march!, stai 
      punito!, si susseguivano con perentori scatti della voce. I piccoli greggi 
      manovrati dai caporali istruttori, confluivano nel gregge più grande 
      pungolato dal sottufficiale. Tutti i greggi dei sottufficiali si 
      compattavano in una unico gigantesco armento, ove gli ufficiali ne 
      stabilivano i confini secondo predefinite linee ortogonali, ottemperando 
      così all'antico assioma medievale: simmetria uguale morte, vera essenza di 
      questa religione.
 Una perentoria raccomandazione usciva dalle bocche di chiunque avesse 
      incarichi di comando: durante la cerimonia vera, all'apice della 
      professione di fede, ogni adepto doveva gridare: lo giuro! L'insieme 
      doveva risultare un volitivo boato. Guai a chi avesse osato storpiarlo in 
      un più fisiologico e carnale: l'ho duro!
 Sia i miei genitori che quelli di Claudio, si organizzarono per essere 
      presenti a Trapani il giorno del giuramento, spinti soprattutto dal 
      desiderio di ricongiungersi, seppur temporaneamente, con i rispettivi 
      figli. Il viaggio di andata lo fecero in aereo, il ritorno in vagone 
      letto. Solo uno sviscerato amore spinse mia madre ad affrontare e superare 
      il terrore del vuoto sotto i piedi ed a salire sull'aereo, lei che anche 
      in seggiovia guardava dentro la borsetta aperta, pur di non vedere il 
      baratro di due metri scarsi che la separavano dai prati sottostanti. 
      Ancora oggi le sono grato per quel gesto di abnegazione. Come da copione, 
      la cerimonia si concluse con il possente boato, invero dal significato 
      acusticamente poco comprensibile. Da parte mia scelsi una terza variante 
      al grido, con un convinto: fan'culo!
 
 Me ne andai da Trapani il due di dicembre, sotto la grandine di un 
      temporale all'ultimo dei due giorni di appello per l'assegnazione ai 
      reggimenti. La mia destinazione fu l'ultima dell'elenco: Quarto reggimento 
      di artiglieria pesante campale, Trento. Il mio vicino di brandina, 
      friulano di Cormons, bravo e taciturno, fu uno dei prescelti per restare 
      come caporale istruttore. Lo sentii quell'ultima notte piangere 
      sommessamente e non fui capace di consolarlo, perché forse non c'era 
      nessun modo per farlo. Claudio era gia partito da due giorni per Trieste.
   
    Rinaldo(19.12.2006)
 
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