Il tempo. Siamo tutti parte
di un esercito in marcia. Piante, animali, pensieri, galassie, atomi,
avanzano in sterminati battaglioni verso un nemico che non esiste.
Cadranno tutte le avanguardie, ma ci saranno sempre nuove forze pronte a
sostituirle. Solo al tamburino sarà concessa L'eternità perchè il suo
strumento dovrà scandire il battito sempre uguale che accompagna il passo
d'ogni soldato verso l'infinito.
Il tempo. Hai mille modi per accorgerti che sta scorrendo. Lo puoi
misurare, puoi sapere quanto ne hai consumato, ma dove stia andando e
quanto te ne rimane non ti è dato sapere. E' la carta di credito che la
vita ti consegna; puoi conservarla diligentemente dentro la sua custodia
blu, oppure infilarla distratto in una tasca dei pantaloni, puoi anche
dimenticarla sul cruscotto dell'automobile sotto il sole d'estate. Essa si
sgualcirà, si deformerà ma, stanne certo, la sua banda magnetica non
perderà nemmeno un bit. Puoi utilizzarla in tutti i negozi, per qualsiasi
spesa e senza nessun codice pin, fino al momento in cui, un commesso, con
fare solenne, ti dirà: "Signore, mi spiace, ma non possiamo più accettare
la sua carta; il suo credito è ormai azzerato, ma non si preoccupi, il
direttore della banca la sta attendendo nel suo ufficio per comunicazioni
in merito".
L'OROLOGIO A CUCU'. Ero un ragazzino, tornavo dalla Germania al
termine di una gita turistica con i miei genitori. Portavo a casa
l'orgoglio di essere andato così lontano, ed in valigia un piccolo
orologio a cucù, acquistato a Monaco di Baviera in non so più quale
negozio. Era minuto, poco legno e tanta plastica, catenelle e contrappesi
finti, quadrante con i numeri romani, due bianche lancette tutte fronzoli
e svolazzi, nessuno sportellino dal quale far sbucare il solito
improponibile volatile. Si caricava a molla. Niente a che vedere con un
sontuoso cucù di rappresentanza, voluminoso ospite in salotto,
sfracellatosi al suolo per il cedimento di un gracile gancio da muro
impossibilitato a reggere la prestanza dei massicci contrappesi e delle
lunghe catene.
Appesi il cucù nella mia cameretta sulla parete di fronte al letto. Il
piccolo pendolo oscillava nervosamente da un capo all'altro della
casupola, senza alcuna grazia, emettendo ad ogni oscillazione un secco
scatto metallico. Non era simpatico: ricordava quegli odiosi cagnolini da
salotto saccenti ed opportunisti, dall'abbaiare isterico. Fu durante la
prima notte in sua compagnia che ebbi dimostrazione di tutta la perfidia
di cui era capace. Nel silenzio quel ticchettio s'ingigantiva
sinistramente, rimbalzando tra le pareti della stanza. Ebbi la sgradevole
sensazione che quel mostriciattolo si fosse deliberatamente staccato dal
muro e, galleggiando nell'aria, fosse arrivato al mio orecchio per
sussurrarmi che stava iniziando da ora a contare il mio tempo, ammonendomi
che esso sarebbe passato inesorabilmente sopra la mia giovane età senza
alcuna benevolenza.
Non seppi resistere più a lungo; mi alzai dal letto, presi quel grillo
parlante e lo infilai in un cassetto della scrivania. Ritornai nel letto,
ma dalla nuova prigione la sua vocina flebile e sommessa, ebbe ancora la
forza di bisbigliare che, al suo forzoso silenzio, avrebbero fatto eco
migliaia di suoi fratelli tutti dediti alla conta inesorabile del mio
tempo. Passai una notte agitata e salutai con gratitudine i primi raggi di
sole che, attraversando la tapparella, mi auguravano una nuova buona
giornata. Dal cassetto, il piccolo cucù emigrò definitivamente in cantina,
relegato a contare il tempo dei ragni e dei topi.
L'OROLOGIO DA PANCIOTTO. Il più rassicurante dei segnatempo. Esso
non ti dirà mai che è tardi, che devi sbrigarti. Come un flemmatico
signorotto di campagna, ti dirà, se proprio vuoi saperlo, quanto manca al
pranzo o alla cena o al meritato riposo, ma con calma, senza fretta.
D'altra parte, per consultarlo, esso ha preteso una precisa liturgia: hai
dovuto sfilarlo dal taschino, lasciarlo oscillare sulla sua catena,
afferrarlo con l'altra mano, aprire lo sportellino che nasconde il
quadrante, guardare finalmente l'ora, accostarlo all'orecchio perchè alla
delicata sinfonia dei suoi battiti non puoi resistere, richiudere lo
sportello, dargli sicuramente un po' di carica, reinfilarlo nel taschino,
guardare in alto qualche nuvola nel cielo, ed infine decidere il da
farsi...ma con calma!
L'OROLOGIO DA POLSO. Eccolo il vero tiranno! Bello, sintetico,
rapido da consultarsi, stretto al tuo polso come una sanguisuga, ha
stabilito un legame fatale con il tuo sguardo, non importa se ora sta
nascosto sotto il polsino della camicia: le sue onde telepatiche
attraversano ogni cosa. E' il tuo segretario particolare; ti dice quello
che devi fare: se sei in ritardo ti ammonisce, se sei in anticipo ti dice
come potresti occupare ogni secondo dell'inaspettato bonus. Ci sono quelli
con la data, il giorno della settimana, il mese, l'anno, le fasi lunari,
il contasecondi. Saprai così quanto manca al prossimo appuntamento con
l'amante e per quanti giorni resterai in rosso col conto corrente dopo
aver pagato le rate della Volvo, del televisore ultrapiatto e della
settimana a Cuba. Potrai sapere quanto manca alla notte di luna piena che
ti vedrà ululare, irsuto e bavoso, alla finestra della camera da letto.
Potrai anche giocare, misurando col contasecondi quanti passi riesci a
fare in un minuto o per quanto tempo riesci a trattenere il respiro prima
di scoppiare. Ci sono quelli a pila, quelli digitali per rendere ancora
più immediata la consultazione, quelli col bracciale metallico che ti
ammanetta il polso, i Rolex per finestrini d'automobile, progettati in
ottemperanza alle disposizioni emanate dal sindacato "Ladri in
ciclomotore".
C'erano quelli da bambino. Li trovavi alla Rinascente. Potevi scegliere
tra quelli con il quadrante Western, sul quale un infallibile pistolero
oscillava la sua Colt in sincronismo col battito dei secondi, oppure, per
gli animi più ingenui, l'alternativa Disneyana di Topolino che muoveva la
sua furba testolina.
Quasi tutti i miei amichetti ebbero come dono per comunione e cresima il
loro primo orologio da polso. Era invariabilmente uno smisurato pataccone
ben più largo dei loro esili polsi, sempre stretto all'ultimo buco del
cinturino, ma ancora talmente lasco da ruotare ostinatamente a faccia in
giù. Poveri orologi! Morti sfiniti molto prima che il polso riuscisse ad
adeguarsi alle loro generose dimensioni, in barba all'ingenua previdenza
dei genitori.
Da adolescente fui proprietario di un orologio da polso automatico, ottimo
espediente per liberarmi dalla schiavitù del rito serale della ricarica.
Un piccolo volano interno, messo in rotazione dal movimento del polso,
provvedeva a ciò. L'energia necessaria era fornita sia dall'esigenza
autarchica di dare libero sfogo alle tempeste ormonali dell'età
adolescenziale, sia dalle violente bordate di pugni che reciprocamente e
amichevolmente scambiavo con il mio compagno di banco. Al terzo vetrino
saltato decisi di mettere al sicuro l'orologio spostandolo sul polso
sinistro.
IL CRONOMETRO. Bello come l'orologio da polso e corposo come quello
da panciotto, si adagia sinuosamente nel cavo della tua mano, i suoi
pulsanti sono esattamente alla portata delle tue dita. Ti regala emozioni,
odora di olio di ricino, non emette alcun battito ma un insieme eterogeneo
di rombi, di sibili, di gomme che stridono, di vibrazioni dell'aria. Un
lampo nel suo vetro illumina per un istante l'immagine deformata di
un'auto da corsa. Il cronometro ti annuncia che la numero sette sta
recuperando cinque decimi al giro sulla vettura di testa; potrebbe
riuscire a superarla prima di fine gara. Mancano ormai pochi giri;
all'uscita della parabolica già si vede sbucare la capofila e, dopo tre
secondi e mezzo, dovrebbe apparire l'inseguitrice. La lancetta conta
inesorabile i secondi: uno, due, tre, tre e mezzo... niente, la numero
sette non appare ancora! Quattro, cinque, sei, dieci, quindici. Passano le
altre macchine. Venti, venticinque, trenta, poi un suono irregolare,
scoppiettante, rauco: appare finalmente la sette. Procede lentamente,
lasciandosi alle spalle una nuvola di fumo azzurro che si spande lungo la
pista. Rallenta ancora, poi accosta a lato delle reti e si ferma. Si
spalanca una portiera, esce il pilota, un ultimo sguardo alla macchina
mentre il pubblico applaude.
E' Lunedì, e per il giovane perito meccanico inizia una nuova settimana di
lavoro nel reparto macchine utensili. E' il suo primo impiego: un anno di
disoccupazione e poi quest' opportunità; sei mesi di contratto, prendere o
lasciare. Una tabella, un cronometro ed una penna come strumenti di
lavoro, Un incarico dal nome importante: Analista tempi e metodi. Percorre
i corridoi dal pavimento viscido d'olio, tra file di torni ed operai in
tuta. Si sofferma davanti ad ogni postazione: misura i tempi e prende
nota, in silenzio. Il cronometro si ferma e riparte, si ferma e riparte
fino alla nausea. La timidezza iniziale del giovane perito ha lasciato il
posto all'indifferenza ed al distacco più completi; sono le uniche armi
per non essere sopraffatti dal sarcasmo dei vecchi operai. Proprio lui che
solo un anno addietro non si era perso nemmeno un corteo per rivendicare
maggiore giustizia sociale per tutti gli sfruttati!
L' OROLOGIO DA TORRE. Il suo sguardo abbraccia tutta la piazza: dai
carri dei contadini le cui ruote vibrano sull'acciottolato, restituendo le
tonalità di un temporale lontano, al polveroso negozio che vende tutto,
dalla carta moschicida al petrolio lampante, passando per il prosciutto
dalla cotenna rancida, all'osteria, dai tavoli di legno sprofondati nella
penombra, dove il ristoro alla calura meridiana ti viene offerto assieme
al profumo del vino ed al puzzo del fumo di vecchi tabacchi. Il sole è
alto nel cielo estivo senza ombre. L'immenso quadrante è fatto per essere
visto da lontano, ma ancora più in la, dove lo sguardo non distingue altro
che un punto bianco, egli ti fa giungere la sua voce attraverso il
rintocco di una campana. Nei campi, dove gli uomini mietono il grano,
giunge all'improvviso il suono tanto atteso. E'il momento della sosta. Dai
cascinali, il medesimo segnale, fa correre i bimbi verso i contadini
portando loro da mangiare. Anche tu ti fermi, depositi la falce, sputi sui
palmi delle mani, le strofini sulla camicia, e ti siedi all'ombra di un
arbusto. Le voci ansimanti dei bimbi sono ormai vicine.
Nel buio della sera, una lunga asta sorregge l'occhio indiscreto di una
lampada che veglia sul vecchio orologio perchè non si addormenti.
LA PENDOLA. Se il tempo avesse una voce, si manifesterebbe di certo
attraverso i rintocchi di una pendola. Severa nella sua magrezza ascetica,
ti guata dall'angolo più recondito del salotto. Attende che tu le sia a
tiro per annunciarti con la sua voce cupa da inacidita governante, che per
te è passata un'altra ora, mentre per lei no: lei è eterna. Lei ti vedrà
invecchiare al ritmo dei suoi lugubri rintocchi. Sul suo legno scuro, uno
svolazzante cartiglio: Tempus fugit! Ma vai al diavolo vecchia megera! Ma
non capisci che anche tu sei finita? Ma chi vuoi spaventare! Io sono
l'universo ed il tempo lo creo e lo distruggo a mio piacimento! Tu invece
finirai mangiata dai tarli.
VIOLA. Viola non è nessun orologio e nemmeno uno strumento
musicale, è una gatta. Lei il tempo non lo misura, lo domina. Con i suoi
occhi socchiusi, con il suo ronfare ritmico e discreto, sonnecchia sulle
mie ginocchia. Mi guarda: i suoi occhi ora sono sottili fessure dalle
quali si spande un'aura magica capace di fermare il tempo. Poi, ad uno
schiocco improvviso di una brace nel camino, gli occhi del gatto si
spalancano, le orecchie si rizzano, le fusa s' interrompono, l'aura si
ritrae, e Viola se ne va, almeno per ora.
Rinaldo
(27.07.2007)
|