Voci di ieri, di oggi, di sempre

Il rumore di fondo

Le notti di Milano hanno la voce di una radio fuori sintonia: nessun suono, nessuna nota, ma una vibrazione bassa, caparbia come un moscone che impazzisce dietro il vetro chiuso di una finestra. E' un respiro che non ha ne inizio ne fine, esiste e basta. Scende dal cielo di luglio che non ce la fa a diventar notte, sale dai prati di periferia che puzzano di stracci bruciati, attraversa le tapparelle spalancate dal sonno senza riposo, s’insinua nelle orecchie, scivola dentro il tuo corpo attraverso i mille pori che colano il miele che ti appiccica al lenzuolo.
Nel tuo cervello si amplifica, si esaspera, immutabile nella sua ossessionante monotonia. Non ti fa dormire, non ti fa sognare. E' la voce di moltitudini di motori elettrici che vivono la loro nuova notte di follia, abbandonati dagli uomini che hanno affidato loro l'arbitrio dell'automatismo, dei programmi già impostati, dei timers che, come pazienti metronomi, scandiscono da sempre la stessa partitura.
Agli ordini dei generali Ampere, Volt e Watt, la vibrazione dilaga nella notte padrona dell'aria surriscaldata, vola intorno ai muri delle case, eterea zanzara le cui ali battono a 50 Herz, a quell’unica frequenza possibile della quale la città si è incoronata.
Danza la falena sotto la luce gialla di un lampione. Danza al ritmo di quella sola nota che il destino le ha concesso. Ma lei sa che questo è l'unico modo per consumare nella trasgressione un'esistenza troppo breve e svolazza ubriaca di vita mentre, sfiorandoti, lascia sulla pelle la gratitudine della sua polvere d'oro.
Sulle increspature inquiete del naviglio si stempera il lessico di un'insegna luminosa. Il blu, il rosso, il giallo si fondono nella pigra corrente che quel suono amalgama nell'esasperazione di una notte senza fine.
Il letto è diventato una condanna, schiacciato da quella vibrazione che surriscalda le molecole d'afa nel sudario di un manto impermeabile. E' lei che ronza nel tuo sangue come una febbre senza brividi nell'ansia del tempo che scorre inesorabile verso il mattino.
Sarà l'impossibile canto del fantasma di un gallo ad annunciarti che anche questa volta la notte ha fallito la speranza del buio, rassegnata al solito cielo di piombo fosforescente. Allora finalmente cesserà anche quella vibrazione, portata via dalla brezza di un'alba che cullerà il tuo unico sprazzo di sonno. Sarà un effimero intervallo nel ritrovato silenzio, nell'unico istante di tregua che precede il nuovo giorno, quando il primo tram uscirà dalla rimessa, condannato dai binari al suo programmato vagabondare.


Il vento

Vento di Marzo, ruvido come la polvere che ti entra negli occhi. Vento duro, senza speranza per una primavera che sembrava ormai affermata e che ora fugge via delusa.
Ulula nella notte il trionfo della sua energia che fa vibrare la città. Nelle vie galoppano branchi di animali arcani che s’inseguono, s’incrociano, si sfiorano nella loro corsa senza meta. Corsa immateriale, trasparente come il ghiaccio, che raduna e disperde foglie secche e brandelli di carta, anime in fuga verso una salvezza senza scampo. Suono di contrabbassi e tamburi. Corsa volubile dai mille ripensamenti: basta un incrocio, una piazza, e la mano del vento che solo un attimo prima frenava i tuoi passi, ora ti ha preso alle spalle e ti spinge via, inopportuno ostacolo sul percorso della sua imprevedibilità. Ma ulula, ulula sempre. Sbatte sulle lamiere delle auto in sosta, spezza i rami che l'inverno ha dimenticato sui platani della circonvallazione, si avventa sulle tapparelle abbassate delle case, costringendole a unirsi ai suoi impeti con gli schiocchi secchi delle assicelle.
Il vento non ha forma, ma sa farsi piccolo piccolo, sa filtrare attraverso i serramenti dalle vecchie ossa deformi, sa colare dai cassoni delle tapparelle. E' entrato in casa, dove suo rombo si è attutito in un dolce soffio, un suadente movimento che fa ondeggiare le tende. E' lui che ti porta l'annuncio di un nuovo respiro denso di ossigeno che spinge via il ristagno soporoso dell'aria morta che ancora ieri avvelenava la città.
Vento di marzo che circuisce i lampioni delle strade; ne accarezza il fusto, li ubriaca con la sua fantasia. A quel gioco i lampioni ammiccano ondeggiando il loro capo opalescente, mentre il disco di luce che illumina l'asfalto ha perso il suo equilibrio ed ora oscilla avanti e indietro: si dilata, si contrae, orfano del baricentro che il vento si è portato via.
Ancora soffia, ulula nelle orecchie, s’infila dentro i baveri alzati degli ultimi passeggeri della notte, scivola lungo la schiena con un brivido che è soltanto il desiderio del calore di casa, dell'abbraccio caldo di un letto. Nel cielo finalmente nero, i cuori delle stelle ondeggiano spandendo sopra i tetti lo scintillio bianco blu dei loro anni luce.
La tua casa è ormai prossima mentre nelle narici il profumo della polvere si confonde tra il gelo dell'inverno ed il colore delle primule che da qualche parte, lontano da qui, stanno già spuntando. Tra poco la trapunta ti accoglierà tra le sue braccia mentre là fuori il vento concluderà la sua sinfonia riscuotendo l'applauso finale che le mani di legno delle tapparelle schioccheranno al suo inchino.


Le sirene

Le mattine di febbraio, aride di gelo e dalle pozzanghere prigioniere del vetro che le rinchiude, hanno l'aria acida che puzza di zolfo. Ma la luce che dai rami secchi del sambuco sale dai prati di periferia a risucchiarsi le ultime stelle del cielo, corre avanti ad annunciare che anche oggi un brandello di notte è stato conquistato. La sveglia ha già imposto il suo comando e la lampada da quaranta candele spande i suoi raggi d'ambra sopra il tavolo della cucina. Sotto quella luce c'eravamo noi bambini con i sogni violentati dal risveglio precoce, con i pensieri confusi e gli sguardi allucinati per quella giornata arrivata sempre troppo presto, per il calore delle coperte svaporato troppo in fretta sotto l'acqua gelata del lavandino. Saliva alle nostre narici il profumo del pane secco ammollato nella scodella del caffelatte. Profumo di casa, profumo vecchio come i nostri piccoli anni, profumo di un addio che tra pochi minuti si sarebbe trasformato nella fragranza del gasolio e della vinpelle del pullman che ci avrebbe condotto a scuola. L'aria nella cucina era ancora gelata nell'attesa che gli anelli della stufa iniziassero la loro lenta riconquista di un tepore perduto la sera prima. Il cappotto e la cartella attendevano pazienti accanto all'uscio.
Era questo il momento in cui la città rinnovava un rito magico e quotidiano, un profondo respiro sospeso nel vuoto per un solo istante prima che l'aria cristallina venisse sbriciolata dal suono di mille sirene, esattamente alle otto del mattino.
Ogni sirena una propria nota, uno specifico timbro, una differente durata, una fabbrica diversa, un'unica sinfonia per pochi istanti. Alta di tono e possente per la vicinanza, urlava quella della Richard Ginori. Rispondeva da più lontano il sibilo della Loro & Parisini. Più timido, quasi sommesso, s’inseriva il soffio della raffineria Volpato, mentre da ancor più lontano, rimbalzava sulle acque fumose del naviglio il tuono della vetreria Bordoni là, verso Corsico.
Ogni operaio sapeva riconoscere il richiamo della propria fabbrica, dove una nuova giornata di lavoro stava per iniziare. Li vedevi, ancor prima che il cielo esplodesse nel suo metropolitano barrito, in piccoli gruppi oppure soli, cavalcare le loro biciclette sotto il basco calato sulla fronte, fendendo l'aria di ghiaccio lungo Ludovico il Moro. Pedalavano in fila indiana, con le ruote che sfioravano i binari del tram saltellando sui lastroni di porfido che spaccavano i polsi, Il risvolto dei pantaloni addentato dalle mollette dei panni, perché non s’impigliasse nella catena. Appesa alla canna del telaio oscillava la borsa di cuoio dentro la quale viaggiava tutto il mondo necessario per quella giornata: la tuta blu, il pasto del mezzogiorno e la bottiglia di vino.
Era un quotidiano sparuto esercito che si muoveva umile e modesto, con la sola missione della conquista del salario. Sbuffando vapore gelato come tante piccole locomotive: ciascuno faceva capolinea alla propria stazione di arrivo, fatta di trapani, torni, lime, trucioli e puzza di olio, cartellini da timbrare e capiofficina cui obbedire.
Vi sarebbero rimasti per tutto il giorno fino a che un nuovo urlo della sirena li avrebbe nuovamente ributtati lungo Ludovico il Moro, nell'aria ritornata gelata, col buio nuovamente affermato, col basco, le mollette ai pantaloni e la tutta più sporca.
I polsi si sarebbero nuovamente spaccati sui lastroni di porfido della via, ma il pensiero della casa, finalmente riscaldata dalla pazienza della stufa, ne avrebbe accelerato la pedalata. Noi bambini aspettavamo i nostri padri ancora là su quel tavolo dalla cucina dal piano di marmo sotto la luce ambrata, tra il sussidiario ed il quaderno di bella mentre ultimavamo i compiti che la sirena del mattino dopo ci avrebbe corretto con un bene! un bravo, o forse soltanto un benino!


Il silenzio

Il silenzio è il suono più imprevedibile che Milano sappia produrre. E' come se tutta la città implodesse in un unico pensiero profondo, come se svanisse dentro le argille ed i ghiaioni che la sostengono, muta e dubbiosa sulla ragione della propria esistenza. Al suo posto rimane soltanto l'immagine sfocata delle sue case, delle sue vie che sfumano in un universo indefinito, grigio ed improvviso.
Il tempo, annegato nel latte bianco della nebbia che confonde lo spazio, ha creato una nuova dimensione dentro la quale i fari delle auto vagano perplessi in strade improvvisamente mutate, in cerca di un riferimento, un segno di continuità che restituisca la certezza di una meta sicura.
Nel buio della sera la nebbia è diventata una grande bocca che divora ogni rumore, con calma, metro per metro, casa per casa. Ciò che restituisce è silenzio e quello strano odore di aria umida che dilata le narici nella percezione di una nuova riconquistata intimità.


Ancora silenzio

Questa sera il cielo è strano. Non luna, non stelle ma solo un riflesso cupo dai toni vagamente rossastri che si alza dai tetti e circonda la città come un'immensa cupola luminescente.
Per noi bambini, che sapevamo dai grandi cosa volesse significare quel cielo, si creava nelle nostre fantasie una gaia attesa, un desiderio che si coricava nel letto accanto a noi e che per tutta la notte trastullava il nostro sonno con la promessa che al mattino la città si sarebbe mutata in fiaba.
Sì, era vero, anche questa volta i grandi non avevano mentito; e ti accorgevi di un’insolita luminosità che filtrava maliziosamente attraverso le persiane chiuse. Luce e silenzio per la sorpresa mattutina di una città tutta bianca, dal cielo alle strade, per un torpore cacciato via in fretta e senza rimpianti perché gioia e risveglio questa volta erano nati insieme.
Guardavi in alto per seguire con gli occhi il discendere silenzioso dei fiocchi di neve che diventavano neri sullo sfondo bianco del cielo. Stupore, meraviglia, entusiasmo, voglia di fare, voglia di star fuori per ricevere sul capo quelle particole evanescenti di una benedizione arcana, silenziosa come le auto che lasciavano lunghe cicatrici brune sulla coltre immacolata.
Silenzioso era il fumo scuro che usciva dai comignoli delle case di periferia, quelle di ringhiera; un comignolo, una stufa; una stufa, una vita: il cesso era fuori, gelido, sul fondo della ringhiera. Nuovamente la città ritrovava il suo differente silenzio: non più intimo, imploso nel discreto pallore della nebbia, ma un silenzio carico di allegria, luminoso, quasi di festa. Milano abbassava la sua voce per udire quelle dei bimbi che gridavano la sorpresa annunciata da quei grandi che sapevano tutto.


I Clakson

I semafori di viale Liguria si sono guastati proprio in questo lunedì di pioggia e lampeggiano indifferenti la loro luce gialla. Dai due lati della circonvallazione, dal raccordo con la tangenziale la colonna delle auto si allunga senza speranza. I tergicristalli rispondono all'intermittenza dei semafori con un ossessivo cenno di diniego. No, non è possibile che anche oggi il tempo che scorre inesorabile debba ancora una volta sancire la condanna di un nuovo ritardo al lettore di badge.
Noi bambini siamo già fuori dai nostri letti; il microonde ha già scaldato il nostro Parmalat HD dentro il quale i biscotti, uno per volta, concludono la loro esistenza consacrati dalla predestinazione quotidiana di un battesimo bollente. I faretti spandono sull'isola della cucina la loro luce intensa. Gli zainetti hanno sostituito le cartelle, ma il risveglio precoce no; vecchio d’infinite generazioni di scolari, arriva sempre troppo in anticipo a scuotere I nostri sguardi imbambolati, mentre il tepore dei termosifoni ha già ammorbidito l'aria di casa.
I nostri padri hanno scambiato le biciclette con le automobili, la vergogna dei lastroni di porfido è ora sepolta sotto la coltre discreta dell'asfalto. Non più il gelo che arrossa le orecchie, ma il confort programmato del climatizzatore. Agli sbuffi del respiro gelato, si è sostituito il sommesso pulsare della marmitta catalitica. I nostri padri non portano più la cartella appesa alla canna della bicicletta; non più tuta blu ed il cibo e la fiasca del vino; ora nella ventiquattrore riposa la perfetta sintesi di un pasto completo stampata sulla carta di un ticket restaurant.
Ma la città rivendica ancora i suoi riti e allora puoi stare certo che alle otto esatte del mattino in un punto qualsiasi, dal viale Zara al Giambellino, dal Gratosoglio al Sempione, nuovamente Milano esploderà nel suo quotidiano sbadiglio. Alle sirene della Richard Ginori o della vetreria Bordoni si sostituirà la furia isterica di un coro di clacson, sguaiato e dissonante, mandato a celebrare la gioia di una nevrosi collettiva, di un ritardo che accomuna, di una diversità nello scorrere del tempo nella quale il disagio di ognuno diventa legame sociale. Un condiviso sacrificio iniziatico per verificare ancora una volta il proprio spirito di appartenenza. Ognuno premerà con furia sul proprio volante per dire agli altri che anche lui c'è, esiste, dentro la sua macchina ferma tanto lontano da piazza Belfanti da sembrare un miraggio. Dalle schiere degli adepti saliranno verso il cielo di pioggia le note uscite dalle furibonde canne di un organo di lamiere colorate, gomme Michelin e pm10.
Sopra le nuvole, il dio dell'effimero sorriderà bonario a quel tributo musicale, benedicendo i semafori guasti ed i nuovi sacerdoti sopra i loro altari a sedici valvole.

VOCI DI IERI, DI OGGI, DI SEMPRE



Rinaldo
(13.05.2008)