Ra l'Eterno

La diciannovesima dinastia del nuovo regno, segnò per l'Egitto il periodo di massimo splendore. Sotto il regno del faraone Ramses II, i commerci con tutta l'area orientale del mediterraneo ricevettero nuovi impulsi, consolidando i rapporti con le popolazioni delle isole egee e con i Fenici. La minaccia degli Ittiti, resa ancor più incombente dalle nuove armi in ferro forgiato e dai poderosi carri da guerra trainati da cavalli, si era dissolta nella battaglia di Qadesh che, seppure dall'esito incerto, aveva consigliato entrambi i contendenti a ritirarsi all'interno dei propri confini.
In quel tempo la storia registrava azioni memorabili: Mosè riportò gli ebrei alla terra dei padri, Agamennone condusse gli Achei fin sotto le mura di Troia.

Sopra i numerosi monumenti che Ramses fece erigere per celebrare la propria gloria immortale, splendeva, alta nel cielo, la benedizione del dio Ra. Ogni mattina il suo disco caldo si levava da est, attraversava veloce l'aria fresca e cristallina del mattino, poi risaliva subito verso l'alto, sempre più abbacinante e sempre più lento. Allo zenith sembrava volesse fermarsi, incerto se proseguire o incendiare la terra, poi nuovamente riprendeva il suo viaggio, concludendolo sotto la linea dell'orizzonte ove, gigantesco ed infuocato, sarebbe apparso ad illuminare il regno delle tenebre.

La sua corsa eterna, il suo misterioso morire ad ovest e rinascere ad est, rappresentò per i sacerdoti un mistero al quale contrapporre spiegazioni piene di dubbi, misere e fumose. Il destino stesso dell'uomo poteva ricordare il tragitto del dio Ra, ma solo quest'ultimo poteva ritornare ogni giorno dal mondo delle tenebre; all'uomo sarebbe stato consentito dagli dei una sola volta, alla fine del tempo.
Avrebbe mai potuto l'uomo inseguire il corso del sole fino al punto in cui sprofondava nel regno di Osiride? Avrebbe potuto raggiungere l'orlo del baratro e osservare da vivo il regno delle tenebre? Sarebbe riuscito ad attraversare indenne il gran fiume Oceano che divide i due mondi e poi ritornare?
Ramses approvò la spedizione organizzata dai sacerdoti, sicuro che i protagonisti di quel viaggio mistico avrebbero accresciuto il lustro del faraone agli occhi dei propri sudditi. Stabilì dunque che ogni valoroso avrebbe dovuto presentarsi al cospetto ed alla benevolenza di Ra, umile e devoto.

Il naviglio egiziano, costruito per le pacifiche acque del Nilo, non sarebbe stato in grado di affrontare il mare aperto, ne gli egiziani avevano il materiale e le conoscenze per costruire imbarcazioni idonee allo scopo. La nave adatta venne fornita dai carpentieri fenici, i quali fecero arrivare dai loro bacini una magnifica imbarcazione, costruita con il legno dei loro cedri. Era immensa; su ogni fiancata si allineavano venti postazioni per rematori, al centro, sull'unico albero, si allargava la sagoma della vasta vela quadrata che si scuoteva al vento, strattonando le funi che la trattenevano allo scafo. La prua e la poppa, rialzate, erano irrigidite dalla presenza innovativa della chiglia. Tutta la struttura trasmetteva la sensazione rassicurante di non temere le onde del mare aperto.I giorni precedenti la partenza furono dedicati a stivare ogni sorta di cibo: dal pane ai legumi, dalla carne salata ai fichi, dai datteri alla birra. L'acqua, il bene più prezioso, venne caricata in gran quantità. Nessuno ad ogni modo era in grado di prevedere quanti giorni di navigazione sarebbero stati necessari per attraversare il gran fiume Oceano. Per ultima e con gran cura salì a bordo la stele di granito nero sulla quale erano scolpite le preghiere e le lodi destinate agli dei, alla cui benevolenza si affidavano i navigatori.

La nave salpò dal delta del Nilo prima ancora che il disco di Ra iniziasse a scolorire il nero della notte, volgendo la prua in direzione opposta al suo nascere, prendendo il largo senza però mai perdere di vista la linea della costa. La porzione occidentale era la meno conosciuta di tutto il Mediterraneo; si sapeva ad ogni modo che non esistevano popolazioni particolarmente evolute o particolarmente ostili. Oltretutto una nave di tali dimensioni avrebbe reso vano qualsiasi tentativo d’assalto da parte di ipotetici pirati. Gli addetti ai remi erano schiavi nubiani, robusti ed infaticabili, fedeli marinai della flotta fluviale di Ramses. Completavano il manipolo alcuni soldati ed altri schiavi per il governo della vela e dei timoni. Il comando era d’esclusiva pertinenza dei sacerdoti. La nave ora scorreva veloce sopra le onde del Mediterraneo, spinta in avanti dalla forza dei remi e dall'energia del vento che rendeva gravida la vela. Dove la costa appariva più generosa gli uomini fecero alcune soste per imbarcare altro cibo ed acqua offerti dalla benevolenza divina.

Arrivarono finalmente al punto dove le terre meridionali e quelle settentrionali si avvicinavano quasi a ricongiungersi, dove il mondo degli umani svaniva davanti al mistero del gran fiume Oceano. Sparì in breve ogni terra e l'orizzonte circondò il mare con un’unica immensa circonferenza. D'ora in avanti solo il grande Ra avrebbe potuto guidarli. I rematori, instancabili, spingevano forte, uniti in un unico gesto collettivo lento, inarrestabile e sempre uguale, esasperando la monotonia che ti addormenta il pensiero e ti trasforma in un insensibile oggetto meccanico. Sui loro corpi i raggi roventi di Ra, liquefacevano la pelle in una patina lucida ed untuosa. Solo i turni di riposo ed il momento dei pasti ridavano ai nubiani il vago sorriso di una condizione umana che si spegneva poi nella rinnovata fatica dei remi.

Nei giorni che seguirono, mentre il sole sembrava volesse sfuggire sempre più in la, l'oceano si spense gradatamente in una calma piatta, senza vento, immobilizzato dalla luce e dalla calura. La grande vela giaceva immobile, svuotata nelle sue pieghe, mollemente sostenuta dall'albero. Le corde che la trattenevano allo scafo erano allentate, dondolando al pigro rollio della nave . L'avanzare lento, nel mare diventato olio, era affidato alla sola forza delle braccia dei nubiani. Il cielo aveva perso ogni colore, una calda e soffocante foschia s’insinuava in ogni spazio, contrapponendo allo sciacquio dei remi un inquietante silenzio. Nella notte senza stelle galleggiavano misteriosi sbuffi di vapore, dentro i quali si nascondevano mostri marini e divinità maligne che dall'acqua fosforescente salivano fino alle coscienze dei viaggiatori. L'alba, uscita esausta dalla lotta contro le tenebre, celebrava la sua effimera vittoria senza gioia, erodendo la speranza dei navigatori. Ra, l'eterno, era diventato una pallida macchia biancastra dai contorni confusi, il cui mesto tramonto sfuggiva inesorabilmente sempre più ad ovest.

Fu solo dopo altri giorni di fatica senza più speranza che il cielo riprese lentamente la sua trasparenza, rendendo la nebbia sempre più evanescente. Il vento, dapprima un esile alito, cominciò a riprendere vigore gonfiando il ventre della vela; un'aria fresca ed asciutta accarezzò i corpi esausti dei rematori infondendo nuova energia. Tramontato il sole, la dea della notte accolse i coraggiosi indossando il suo abito più splendente, ma il dono più bello volle farlo Ra, accendendo, alle prime luci dell'alba, una lontana linea scura sovrastata da una bassa cortina di nuvole e, più sopra da qualche bianca ala di gabbiano. Il mare sotto la prora andava assumendo nuove trasparenze, nuove colorazioni. Ma la gioia di aver attraversato indenni il gran fiume Oceano si spegneva nella constatazione che il tramonto era sempre nella sua abituale posizione, lontano, irraggiungibile, oltre nuovi mondi e nuovi oceani sparsi lungo il corso dell'eternità. Forse, attraversata quella terra, si sarebbe potuto rivedere le piramidi, ma ciò avrebbe comportato l'esistenza di un mondo sferico, eretico e blasfemo.

Quello che apparve indiscutibile fu il fallimento della missione: il mondo di Osiride era negato alla conoscenza umana. Non restò altro che organizzare il ritorno. La terra sulla quale sbarcarono fu generosa di cibo ed acqua, ma non altrettanto lo furono gli abitanti. La mattina del terzo giorno la risacca accarezzò soltanto i corpi insanguinati degli esploratori venuti dal mare. A nulla erano valse le loro armi di bronzo contro l'agguato notturno di mille lucide ossidiane.

A Bartolomeo Gomez, comandante della guarnigione di Hispaniola, fu affidato dal governatore Nicòlas De Ovando, l'incarico di soffocare le ultime sacche di resistenza dei ribelli indios. L'operazione si sarebbe dovuta condurre in tempi brevi, senza risparmio di mezzi, e nella maniera più decisa; serviva un esempio inequivocabile che l'evangelizzazione dei bruti ed il sequestro dei loro tesori pagani non ammetteva soste, in nome del nuovo Dio di misericordia.

L'oro, legittimamente rivendicato dalla civiltà occidentale, riempiva le stive di una flotta di galeoni dirette verso la madrepatria. Furono imbarcate anche alcune insolite armi di bronzo, ed una tavola di lucido granito nero sulla cui superficie erano state incise minutissime figurine di animali e di oggetti vari, disposte secondo linee parallele. Facevano parte del bottino razziato ad un principe indio ed omaggio personale di De Ovando al proprio re. La lettera del governatore sottolineava al re l'unicità ed il mistero di quei reperti, soprattutto se raffrontati al grado d'arretratezza di quei selvaggi. A due giorni di navigazione dalla meta, il galeone sul quale i doni erano stivati iniziò a rallentare, distanziandosi lentamente dal resto del convoglio. L'acqua dalla linea di galleggiamento prese a risalire inesorabilmente verso le murate, dilagando sul ponte e precipitando infine impetuosa, dentro la stiva. Gli uomini, prima di gettarsi a mare, ebbero la sensazione che qualcosa in quell'oscuro ventre di legno avesse misteriosamente aumentato il proprio peso fino a far sprofondare l'intera nave dentro l'oceano. Nel volgere di pochi minuti la tavola di granito e le armi si adagiarono silenziosamente sul fondo dell'atlantico, custodite dal loro immenso sarcofago di legno.
Il rientro delle due navi superstiti al porto di La Coruna fu salutato dallo sgomento di uno sparuto manipolo di curiosi. In alto nel cielo, Ra l'eterno osservò l'attracco, fermandosi in cielo per un attimo, poi riprese il suo viaggio verso il Regno delle tenebre, indifferente ed inesorabile.

Rinaldo
(27.06.2007)