Ra l'Eterno |
La diciannovesima dinastia
del nuovo regno, segnò per l'Egitto il periodo di massimo splendore. Sotto
il regno del faraone Ramses II, i commerci con tutta l'area orientale del
mediterraneo ricevettero nuovi impulsi, consolidando i rapporti con le
popolazioni delle isole egee e con i Fenici. La minaccia degli Ittiti,
resa ancor più incombente dalle nuove armi in ferro forgiato e dai
poderosi carri da guerra trainati da cavalli, si era dissolta nella
battaglia di Qadesh che, seppure dall'esito incerto, aveva consigliato
entrambi i contendenti a ritirarsi all'interno dei propri confini. Sopra i numerosi monumenti che Ramses fece erigere per celebrare la propria gloria immortale, splendeva, alta nel cielo, la benedizione del dio Ra. Ogni mattina il suo disco caldo si levava da est, attraversava veloce l'aria fresca e cristallina del mattino, poi risaliva subito verso l'alto, sempre più abbacinante e sempre più lento. Allo zenith sembrava volesse fermarsi, incerto se proseguire o incendiare la terra, poi nuovamente riprendeva il suo viaggio, concludendolo sotto la linea dell'orizzonte ove, gigantesco ed infuocato, sarebbe apparso ad illuminare il regno delle tenebre.
La sua corsa eterna, il suo
misterioso morire ad ovest e rinascere ad est, rappresentò per i sacerdoti
un mistero al quale contrapporre spiegazioni piene di dubbi, misere e
fumose. Il destino stesso dell'uomo poteva ricordare il tragitto del dio
Ra, ma solo quest'ultimo poteva ritornare ogni giorno dal mondo delle
tenebre; all'uomo sarebbe stato consentito dagli dei una sola volta, alla
fine del tempo. Il naviglio egiziano, costruito per le pacifiche acque del Nilo, non sarebbe stato in grado di affrontare il mare aperto, ne gli egiziani avevano il materiale e le conoscenze per costruire imbarcazioni idonee allo scopo. La nave adatta venne fornita dai carpentieri fenici, i quali fecero arrivare dai loro bacini una magnifica imbarcazione, costruita con il legno dei loro cedri. Era immensa; su ogni fiancata si allineavano venti postazioni per rematori, al centro, sull'unico albero, si allargava la sagoma della vasta vela quadrata che si scuoteva al vento, strattonando le funi che la trattenevano allo scafo. La prua e la poppa, rialzate, erano irrigidite dalla presenza innovativa della chiglia. Tutta la struttura trasmetteva la sensazione rassicurante di non temere le onde del mare aperto.I giorni precedenti la partenza furono dedicati a stivare ogni sorta di cibo: dal pane ai legumi, dalla carne salata ai fichi, dai datteri alla birra. L'acqua, il bene più prezioso, venne caricata in gran quantità. Nessuno ad ogni modo era in grado di prevedere quanti giorni di navigazione sarebbero stati necessari per attraversare il gran fiume Oceano. Per ultima e con gran cura salì a bordo la stele di granito nero sulla quale erano scolpite le preghiere e le lodi destinate agli dei, alla cui benevolenza si affidavano i navigatori. La nave salpò dal delta del Nilo prima ancora che il disco di Ra iniziasse a scolorire il nero della notte, volgendo la prua in direzione opposta al suo nascere, prendendo il largo senza però mai perdere di vista la linea della costa. La porzione occidentale era la meno conosciuta di tutto il Mediterraneo; si sapeva ad ogni modo che non esistevano popolazioni particolarmente evolute o particolarmente ostili. Oltretutto una nave di tali dimensioni avrebbe reso vano qualsiasi tentativo d’assalto da parte di ipotetici pirati. Gli addetti ai remi erano schiavi nubiani, robusti ed infaticabili, fedeli marinai della flotta fluviale di Ramses. Completavano il manipolo alcuni soldati ed altri schiavi per il governo della vela e dei timoni. Il comando era d’esclusiva pertinenza dei sacerdoti. La nave ora scorreva veloce sopra le onde del Mediterraneo, spinta in avanti dalla forza dei remi e dall'energia del vento che rendeva gravida la vela. Dove la costa appariva più generosa gli uomini fecero alcune soste per imbarcare altro cibo ed acqua offerti dalla benevolenza divina. Arrivarono finalmente al punto dove le terre meridionali e quelle settentrionali si avvicinavano quasi a ricongiungersi, dove il mondo degli umani svaniva davanti al mistero del gran fiume Oceano. Sparì in breve ogni terra e l'orizzonte circondò il mare con un’unica immensa circonferenza. D'ora in avanti solo il grande Ra avrebbe potuto guidarli. I rematori, instancabili, spingevano forte, uniti in un unico gesto collettivo lento, inarrestabile e sempre uguale, esasperando la monotonia che ti addormenta il pensiero e ti trasforma in un insensibile oggetto meccanico. Sui loro corpi i raggi roventi di Ra, liquefacevano la pelle in una patina lucida ed untuosa. Solo i turni di riposo ed il momento dei pasti ridavano ai nubiani il vago sorriso di una condizione umana che si spegneva poi nella rinnovata fatica dei remi. Nei giorni che seguirono, mentre il sole sembrava volesse sfuggire sempre più in la, l'oceano si spense gradatamente in una calma piatta, senza vento, immobilizzato dalla luce e dalla calura. La grande vela giaceva immobile, svuotata nelle sue pieghe, mollemente sostenuta dall'albero. Le corde che la trattenevano allo scafo erano allentate, dondolando al pigro rollio della nave . L'avanzare lento, nel mare diventato olio, era affidato alla sola forza delle braccia dei nubiani. Il cielo aveva perso ogni colore, una calda e soffocante foschia s’insinuava in ogni spazio, contrapponendo allo sciacquio dei remi un inquietante silenzio. Nella notte senza stelle galleggiavano misteriosi sbuffi di vapore, dentro i quali si nascondevano mostri marini e divinità maligne che dall'acqua fosforescente salivano fino alle coscienze dei viaggiatori. L'alba, uscita esausta dalla lotta contro le tenebre, celebrava la sua effimera vittoria senza gioia, erodendo la speranza dei navigatori. Ra, l'eterno, era diventato una pallida macchia biancastra dai contorni confusi, il cui mesto tramonto sfuggiva inesorabilmente sempre più ad ovest. Fu solo dopo altri giorni di fatica senza più speranza che il cielo riprese lentamente la sua trasparenza, rendendo la nebbia sempre più evanescente. Il vento, dapprima un esile alito, cominciò a riprendere vigore gonfiando il ventre della vela; un'aria fresca ed asciutta accarezzò i corpi esausti dei rematori infondendo nuova energia. Tramontato il sole, la dea della notte accolse i coraggiosi indossando il suo abito più splendente, ma il dono più bello volle farlo Ra, accendendo, alle prime luci dell'alba, una lontana linea scura sovrastata da una bassa cortina di nuvole e, più sopra da qualche bianca ala di gabbiano. Il mare sotto la prora andava assumendo nuove trasparenze, nuove colorazioni. Ma la gioia di aver attraversato indenni il gran fiume Oceano si spegneva nella constatazione che il tramonto era sempre nella sua abituale posizione, lontano, irraggiungibile, oltre nuovi mondi e nuovi oceani sparsi lungo il corso dell'eternità. Forse, attraversata quella terra, si sarebbe potuto rivedere le piramidi, ma ciò avrebbe comportato l'esistenza di un mondo sferico, eretico e blasfemo.
Quello che apparve
indiscutibile fu il fallimento della missione: il mondo di Osiride era
negato alla conoscenza umana. Non restò altro che organizzare il ritorno.
La terra sulla quale sbarcarono fu generosa di cibo ed acqua, ma non
altrettanto lo furono gli abitanti. La mattina del terzo giorno la risacca
accarezzò soltanto i corpi insanguinati degli esploratori venuti dal mare.
A nulla erano valse le loro armi di bronzo contro l'agguato notturno di
mille lucide ossidiane.
L'oro, legittimamente
rivendicato dalla civiltà occidentale, riempiva le stive di una flotta di
galeoni dirette verso la madrepatria. Furono imbarcate anche alcune
insolite armi di bronzo, ed una tavola di lucido granito nero sulla cui
superficie erano state incise minutissime figurine di animali e di oggetti
vari, disposte secondo linee parallele. Facevano parte del bottino
razziato ad un principe indio ed omaggio personale di De Ovando al proprio
re. La lettera del governatore sottolineava al re l'unicità ed il mistero
di quei reperti, soprattutto se raffrontati al grado d'arretratezza di
quei selvaggi. A due giorni di navigazione dalla meta, il galeone sul
quale i doni erano stivati iniziò a rallentare, distanziandosi lentamente
dal resto del convoglio. L'acqua dalla linea di galleggiamento prese a
risalire inesorabilmente verso le murate, dilagando sul ponte e
precipitando infine impetuosa, dentro la stiva. Gli uomini, prima di
gettarsi a mare, ebbero la sensazione che qualcosa in quell'oscuro ventre
di legno avesse misteriosamente aumentato il proprio peso fino a far
sprofondare l'intera nave dentro l'oceano. Nel volgere di pochi minuti la
tavola di granito e le armi si adagiarono silenziosamente sul fondo
dell'atlantico, custodite dal loro immenso sarcofago di legno. |