ROMA ! Oggi voglio dedicare i miei ricordi allo spirito degli anni cinquanta, creato da quella umanità uscita dalla devastante esperienza della guerra, e che pure fu capace di avere un sogno, di farne un progetto e di portarlo a compimento. Era un pomeriggio di settembre, caldo ed assolato. L'estate teneva ancora lontano le prime brume autunnali ed il giallo delle foglie dei platani. Mio padre irruppe nel cortile a cavallo di un nuovo mostro d'acciaio. Una sguaiata sinfonia di rumori vari, circondava, come un' aura, cavaliere e cavalcatura. Aveva cambiato moto. Aveva sostituito la vecchia piccola Iso, ormai sfiancata da mille battaglie, con una ipertrofica Sertum, non nuova e comunque bisognosa anch'essa di cure. Il rumore lo testimoniava. Sebbene a fronte di una cilindrata doppia della Iso, poteva vantare a suo credito una differenza di non più di due cavalli, ma era grossa, robusta e confortevole, un infaticabile trattore. Il nome esotico, altro non era che la traduzione latina di corona e la sua origine era prettamente milanese. Soltanto a motore spento osai avvicinarmi ad essa. Ticchettii e scricchiolii accompagnavano la vampa di calore che andava a lambire il mio corpo, dalle gambe al viso. Intorno l'odore di metallo surriscaldato e di olio bruciato. Era nera e sopra la sella troneggiava il volto soddisfatto di mio padre, pietrificato in un sorriso estatico. Scese in cortile anche mia madre. Il suo mite sorriso di circostanza, rendeva ancor più palese la sua totale estraneità al fatto. Da parte mia, quella moto mi sembrò davvero brutta, quasi lugubre. Per la Sertum fu l'ultimo viaggio di quell'anno. Lentamente, raffreddatasi, fu ricoverata nel retrobottega del negozio di mia zia, al fianco di un'altra Sertum, anch'essa recentissimo e macilento bottino del marito, mio zio, appunto. Ad onta di qualsiasi norma igienica, allora comunque di la da venire, quel locale che avrebbe dovuto ospitare le derrate alimentari di una rivendita di pane, pasta e dolciumi, in realtà fungeva da cucina, ricovero per gatti, e deposito di moto. L'ulteriore destinazione d'uso ad officina per la rimessa a nuovo delle due Sertum non fu gradita ai gatti, i quali emigrarono in massa direttamente in negozio, occupando per l'ozio ed il sonno, la sommità dei sacchi di iuta che ospitavano, riso, farina, granaglie e quant'altro. La clientela sarebbe stata infinitamente grata alla zia per l'apporto energetico dovuto al pelo felino. Fino alla primavera successiva vidi poco sia mio padre che mio zio. Ogni ora libera era destinata alle due moto le quali dovevano risorgere in un insieme coerente e funzionale dalle grandi ceste per pane entro cui ora si trovavano allo stato molecolare. Il miracolo avvenne a primavera. Come preconizzato secoli prima dal Botticelli, le due Sertum uscirono dalle loro ceste, belle, sfolgoranti e di nuovo vergini, con ancora addosso il profumo della vernice nitro, rossa. La prima uscita in coppia, avvenne emblematicamente il primo maggio, festa del lavoro, e di quel lavoro; ad Iseo per la tradizionale "Tenca empienida" (la tinca ripiena) con la polenta. Finì il rodaggio ed arrivò Agosto e con esso il momento della partenza per Roma, doveroso omaggio ai mezzi ed alle fatiche di sei mesi. Partimmo io, mio padre, mia madre, lo zio e la zia. Ricordo l'assolata via Emilia, diritta, monotona, con i suoi sonnacchiosi paesotti dal profumo intenso di fieno e di stalla, attraversati bombardando i muri delle case con le possenti bordate degli scappamenti, e poi Bologna, e poi su per l'Appennino: il passo della Raticosa, e poi la Futa, infine giù fino a Fiesole. La sera facemmo conoscenza con gli eccessi di una fiorentina debordante dai piatti, delizia per gli uomini, perplessità per le donne, e....disgusto per me, con tutto quel sangue!. Di nuovo in sella il mattino dopo, presto, per godere il più possibile dell'aria rinfrescatasi durante la notte. Attraversammo le riarse ocre del senese, della Valdichiana. Il medioevo ci sorrideva, complice, dai muri diroccati dei borghi. Poi Orvieto, ed infine Viterbo, accolti subito dal rosso zuccherino di una fresca anguria e dal disco del sole che, altrettanto rosso, decideva di sospendere, per quel giorno, le ostilità. Non ricordo per quanto tempo ci fermammo a Roma, credo poco, ma fu sufficiente per cementare nella memoria alcune immagini: un ristorantino presso la stazione Termini, dalla buona cucina e dal buon prezzo, dove i grandi fecero conoscenza con il Frascati ed io con....la macedonia di frutta, con il cameriere in giacca bianca sudato ed affannato fra i tavoli. Piazza San Pietro allucinata nel sole agostano. Il Colosseo così grande e così incompleto. Le terme di Caracalla, -dove tutti i pesci venivano a galla- perché questo era ciò che per me le rendeva importanti. Infine piazza Venezia, col suo balcone, e l'ironia evocativa di mio padre e lo zio, l'uno internato in Germania, l'altro reduce dalla Russia, ben felici nel vederlo vuoto. L'altare della patria, abbacinante torta nuziale. La strada del ritorno ci portò ad attraversare l'Umbria. All'altezza dell'altopiano della Somma, tra Spoleto e Foligno, il sole scatenò la sua più violenta offensiva. Fummo costretti a chiedere temporaneo riparo in una casa colonica posta a lato della strada il cui asfalto si stava liquefacendo. Ci ospitò una anziana donna, vestita di nero con fazzoletto in testa anch'esso nero. Al piano terra un solo stanzone, in penombra, vetri e persiane chiuse per il gran caldo. All'interno l'aria era incredibilmente fresca, nonostante in un angolo il camino fosse acceso. L'acqua di pozzo che ci offerse sembrò addirittura gelata. Quella vecchia in nero e tutto quel buio evocarono in me alcune paure infantili, ma con lo zio ed il papà non c'era da temere alcunché, e poi.... non aveva nemmeno la falce!. La giornata si concluse con l'arrivo sull'Adriatico, a Porto Recanati. Delle attrezzature turistiche di allora, ci si doveva accontentare cosicché quella sera si rese disponibile un solo stanzone con cinque letti. A me il poter dormire tutti assieme, sembrò la cosa più allegra del mondo e penso che anche ai "grandi", una volta superate le prime perplessità, la cosa non fosse poi tanto sgradita. Cementava ancor più lo spirito del gruppo. La sera successiva giungemmo a Cattolica e fu li che la mattina dopo feci, prima volta nella vita, il bagno nel mare. Feci anche conoscenza con il potere lassativo dell'acqua salata involontariamente bevuta nell'euforia di questa nuova esperienza. Ci fu poi Lignano con la spiaggia immensa e senza un'anima. Una vecchia foto: solo io che gioco con la sabbia: davanti il mare, intorno il deserto. E poi Venezia in una incredibile bettola, scoperta chissà come nel dedalo delle calli più sperdute: mangiammo il merluzzo fritto servito sulla carta da macellaio, quella spessa, gialla. Lontano dalle attuali stupide originalità, quello era invece il loro arcaico ma genuino modo di servire. Il merluzzo era buono. Il viaggio si completò con la visita a Trieste, una sosta in Friuli in visita ai mille parenti, e poi a casa, a Milano. Ogni casa ha il suo odore caratteristico: ti resta impresso nella mente in maniera indelebile, non va mai più via. All'apertura dell'uscio, mi venne incontro e mi disse: bentornato! ed io sorrisi. Questo è quel poco che la memoria ha saputo conservare. Ma i cinquant'anni passati non sono riusciti a scalfire quella sensazione di disinvolta naturalezza, quasi ingenuità, con la quale si affrontarono gli oltre duemila chilometri del viaggio. Sbaglia chi oggi, pensando a quelle strade, a quei mezzi, a quei disagi, la reputi un'impresa eccezionale; fu solo un bel viaggio sotto i cieli degli anni cinquanta.
Rinaldo |