IL MARE D'AGOSTO |
Non amo il Mare d'Agosto. Non l'ho mai amato, nemmeno quando, con l'euforia della giovinezza, avrei potuto cogliere a piene mani tutti i doni che quella stagione sapeva offrirmi. Con la natura, e con il Mare ho sempre preteso un rapporto esclusivo, diretto, senza intermediazioni. Ho sempre cercato spiagge deserte dove, seduto sulla battigia e con lo sguardo fisso sulla linea dell'orizzonte, lo invitavo a raccontarmi le sue storie. No, in Agosto Lui tace. Lui non sopporta le moltitudini che impertinenti lo osservano dalle spiagge, che fanno chiasso, che scalfiscono la sua pelle. Lui è vecchio e vuole essere lasciato in pace. Solo nel silenzio puoi allora udire la sua voce chiamarti per evocare con te un ricordo lontano. Era la fine di Settembre. Una imprevista disponibilità di tempo, mi aveva consentito di ritornare dopo anni a calcare la sabbia del basso litorale calabro; una zona dove scogliere e piccole cale si rincorrono incessantemente per chilometri. Il sole, ancora nel pieno della sua vitalità, beneficiava coi suoi raggi le poche schiene di uno sparuto manipolo di villeggianti. Non mi fu quindi difficile trovare un luogo appartato libero da umane condivisioni. Alla spiaggia si accedeva attraverso un tormentato e polveroso sentiero che si contorceva attraverso bassi arbusti di sempreverdi, dall' intenso profumo di resina e liquerizia. Sulle sommità degli alberi più alti, invisibili cicale riempivano l'aria del loro ossessivo frinire. La spiaggia misurava poche decine di metri di lunghezza ed era delimitata ai due estremi da massi che davano origine e due scogliere allontanantesi in direzioni opposte, accarezzate quel giorno da una pigra risacca. La macchia mediterranea arrivava a lambire sia i massi che la sabbia. Qualche avanzo di sigarette e qualche frammento di carta testimoniavano passate frequentazioni, probabilmente dal mare, rappresentando quel luogo un naturale ed agevole approdo. Individuai un comodo giaciglio dietro un masso, dove, sebbene privato di buona parte della visibilità sulla spiaggia e sul mare, potevo comunque godere dell'ombra degli ultima schiera di arbusti. Vi stesi l'asciugamano e vi depositai la borsa degli effetti personali, infine percorsi i pochi passi che mi separavano dall'acqua ancora calda del mare di Settembre. Ultimai il bagno, stetti al sole per asciugare la pelle e quando il calore su di essa divenne insopportabile, ritornai all'ombroso conforto di quel giaciglio. Il silenzio, rotto solo dal ritmico sciacquio della risacca, il lontano frinire delle cicale, il fresco dell'ombra, la ritrovata armonia dello spirito, concorsero a traghettarmi in breve tempo verso un sonno profondo. Non so quanto tempo trascorse, ma fui svegliato dal suono di alcune voci umane provenienti dalla spiaggia. Il sole, ancora alto infrangeva i suoi raggi contro una cortina nebbiosa che si era venuta nel frattempo a formarsi e che sfumava i contorni della linea dell'orizzonte. Ancora frastornato dall'improvviso risveglio, mi sporsi oltre le rocce. Uno strano spettacolo mi si parò davanti agli occhi: un gruppetto di uomini, saranno stati una quindicina, si trovava ora sulla spiaggia. Erano quasi tutti completamente nudi, di piccola taglia, sulla carnagione scura, incartapecorita da chissà quante estati, alcune chiazze biancastre denunciavano la presenza del salino lasciato sulla pelle dall'acqua di mare. Nere barbe incorniciavano il loro viso. L'inconsueto spettacolo mi consigliò una più prudente e discreta osservazione. L'imbarcazione per mezzo della quale erano approdati, era stata da loro trascinata verso la spiaggia, portando in secca buona parte della prua. Era una curiosa imbarcazione: molto panciuta, tozza, il fasciame, estremamente grezzo, era suddiviso dalla linea di galleggiamento in due distinte parti: quella sommersa, verdastra, era incrostata da alghe e teredini, l' esterna recava invece tracce di una vecchia colorazione ocra. La prua, recante la sbiadita traccia di due occhi dipinti sui fianchi, si inarcava verso l'alto molto più della poppa Quest'ultima sembrava non possedesse il timone ; apparivano invece ai suoi lati due grossi remi che verticalmente e simmetricamente si immergevano nell'acqua. Al centro dello scafo si ergeva un tozzo albero deputato a sostenere un vela, senz'altro quadra, ora ammainata. Sulla fiancata visibile giacevano dei lunghi remi. Alcuni uomini erano ora intenti a scaricare grosse e pesanti anfore di terracotta, altri, gravati da quel carico, attraversavano in fila la spiaggia perdendosi nella macchia retrostante. Le parole che si scambiavano erano espresse in un idioma dagli accenti strani: non un dialetto meridionale, non una lingua, almeno per me, riconoscibile. Una delle anfore scivolò dal bordo della prua e, cadendo sulla sabbia, si fessurò in larghe crepe dalle quali uscì parte del contenuto, poi sommariamente raccolto. Pur lontano, intuii che non si trattava di sostanza liquida. I cocci più grossi furono gettati in acqua, gli altri restarono li. Ultimate le operazioni di scarico e trasporto, il drappello spinse la prua dell'imbarcazione verso il mare aperto, vi salì sopra, afferrò i remi, manovrò i timoni, sciolse la vela, e nel giro di pochi attimi scomparve alla vista, risucchiata dalla foschia che ancora ristagnava al largo. Attesi ancora qualche minuto, prima di uscire allo scoperto, poi mi avvicinai al punto di approdo. Ritrovai i cocci: intorno ad essi e frammisto alla sabbia, era qualche pugno di sementi, non so se di grano, orzo oppure farro. Raccolsi il coccio più grosso rimasto: si trattava di uno dei due manici. Sul lato esterno, ben leggibile, una scritta in caratteri greci; la lessi: Locroi Epizephiyrioi. L'attuale Locri Epizefiri, un tempo colonia della Magnagrecia. Non stavo capendo nulla: ero sveglio o stavo sognando? La mente non riusciva ad accettare le immagini che gli occhi le avevano trasmesso; non ero pronto ad accettare l'impossibile! Si avvicinò l'ora del rientro: la linea dell'orizzonte, di nuovo limpida, si accingeva ad accogliere nel suo grembo l'esausto carro del sole, ormai in arrivo. Ributtai quel frammento là dove lo raccolsi e mi allontanai cercando disperatamente di far propria l'ipotesi di una semplice allucinazione. Passai una notte tormentata: il pensiero ricorrente di quella nave, di quegli uomini, e quei pezzi di anfora, e quella scritta mi toglieva il sonno. La mattina seguente, appena la luce del giorno me lo permise, corsi di nuovo alla spiaggia. Non vi era più alcuna traccia di quella presenza, non i semi, non i cocci, non il solco della chiglia sulla sabbia. Tutto scomparso, anzi, di certo mai esistito. Un senso di euforica leggerezza mi accompagnò per tutto il giorno. Decisi che era stato solo un incubo......forse. Al mare piace raccontare antiche storie, ma stai attento! Quando sei solo, Lui è così abile da fartele sembrare vere!
Rinaldo
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