KOPLAX

Koplax era giunto al termine della propria carriera lavorativa.

Tremilaquattrocento unità temporali di irreprensibile servizio amministrativo presso l'archivio storico della capitale di Gyro, il settimo pianeta della stella Vega. D'ora in avanti avrebbe potuto disporre di tutto il tempo necessario per godersi il resto di questa vita, libero e felice, nell'attesa del giorno della nuova rinascita.

Era quello di Gyro, un mondo del tutto singolare, dove gli abitanti, appagati dal grado di civiltà ormai raggiunto, avevano deciso di non sviluppare ulteriormente la crescita tecnologica, ritenendo quella attuale più che sufficiente per i loro fabbisogni.

Debellata la morte, la necessità del ricambio generazionale aveva perso ogni significato; ad esso si era sostituito un affidabile processo di rigenerazione, destinato a garantire l'eternità a tutti i Gyroniani. Eccetto incomprensibili casi, nessun abitante, consapevole di tale privilegio, era disposto a rinunciarvi, al punto che le rare nascite erano divenute un fatto eccezionale e malaugurante.

L'esistenza si era cristallizzata in un tranquillo benessere, scontate ritualità, rassicuranti privilegi, ove gli imprevisti e le avversità erano stati da lungo tempo banditi dalla vita quotidiana.

La società, come segno di gratitudine per il lavoro svolto, aveva donato a Koplax un confortevole appartamento in una delle zone più amene del paese, lontano dalla frenetica vita delle grandi metropoli, esclusivamente riservate a quelli ancora impegnati in un'attività.

Con il danaro della buon'uscita, si era finalmente tolto la soddisfazione di far proprio il sogno di un'intera vita: un confortevole camper spaziale capace di raggiungere agevolmente le velocità ultrarelativistiche necessarie per esplorare mondi lontani, possibilmente fuori dai soliti scontati circuiti turistici.

Radunò gli amici e li mise al corrente della propria intenzione di lasciare Gyro per un discreto periodo di tempo; si sarebbe dedicato ad un ritemprante viaggio nello spazio cosmico. Promise loro che avrebbe dato notizie di se non appena possibile, magari portando al ritorno qualche simpatico souvenir.
Le ultime due incombenze che portò a termine prima di partire furono, vista l'età, una indispensabile visita medica, e la preparazione dell'itinerario da seguire.

La meta di Koplax era una una stella di dimensioni medio piccole, non particolarmente luminosa e nemmeno poi tanto lontana: circa venticinque anni luce. Si sapeva che intorno ad essa ruotavano alcuni pianeti di scarsissima rilevanza turistica e scientifica, ad ogni modo un luogo tranquillo e poco frequentato, dove potersi rilassare.

Virgil Foyt aveva abbassato la serranda della sua stazione di servizio, al termine dell'ultima riparazione della giornata su un vecchio pick up. L'officina era stata ripulita ed i lavori per l'indomani, ormai pianificati. Finalmente, Dopo una sbrigativa cena, poteva dedicarsi al progetto che da più di un anno mobilitava tutti i suoi entusiasmi e tutto il suo tempo libero.

In un angolo del capannone, un vecchio telo militare nascondeva la sagoma, indefinita ma già particolare, del veicolo che Virgil stava realizzando:
Un poderoso motore otto cilindri, recuperato da una vecchia berlina, ne costituiva l'elemento principale. Attorno ad esso un intricato groviglio di tubi sosteneva il motore stesso, il posto di guida e tutti gli altri organi meccanici. Non vi era alcuna traccia di carrozzeria, tranne uno smilzo parabrezza davanti al pilota. La trazione era assicurata da quattro grossi pneumatici.

Il vecchio motore era stato profondamente elaborato spremendogli tutti i cavalli possibili.la loro vita doveva limitarsi allo stretto necessario per concludere una sola gara: La scalata del Pikes Peak. Quel sogno era costato a Virgil, notti insonni, interminabili problemi tecnici, quasi un divorzio, ed il prosciugamento del conto in banca. Nonostante ciò, ora che lo vedeva completato, si convinse che ne era valsa davvero la pena.

La cronoscalata del Pikes Peak, nelle montagne del Colorado, rappresenta da novant'anni la sfida che generazioni di temerari conducono contro le leggi della fisica e dell'istinto di conservazione; venti chilometri di salita attraverso un'immensa pista sterrata con lunghi rettilinei ed interminabili curvoni, che salgono sempre più in alto, tra abetaie ed angosciosi precipizi; e poi ancora più su dove l'aria rarefatta toglie il fiato ai motori, dove il cielo è color cobalto e la luce abbacinante del sole ti ferisce gli occhi. Il traguardo, posto a quasi tremila metri di quota, corrisponde all'allentarsi di una tensione nervosa ormai divenuta sofferenza fisica. La velocità di punta dei migliori, nonostante tutto, arriva a sfiorare i duecento all'ora.

Al Pikes Peak vi giungono piloti provenienti da tutti gli States, sebbene la vittoria assoluta sia da tempo monopolio dei migliori piloti stranieri, alla guida di mostruosità giapponesi da mille cavalli. E' ammesso qualsiasi tipo di veicolo, moto od auto di ogni cilindrata con due o quattro ruote motrici. Conta soprattutto parteciparvi; il premio è lassù, quando spegni il motore nell'aria di cristallo.

Era l'inizio di maggio, e questo avrebbe consentito a Virgil di disporre di due mesi buoni per la messa a punto del veicolo prima della gara.
Quella sera pensò di limitarsi al solo avviamento del motore. Si sedette al posto di guida, diede corrente alle bobine, e premette il pulsante d'accensione.
Dovette insistere alcuni secondi con acceleratore e motorino d'avviamento, affinchè i primi fiotti di benzina giungessero ad alimentare i cilindri. Lentamente il motore cominciò a prendere vita: dapprima un sordo e soffocato gorgoglio fece vibrare tutta la macchina, poi dallo scappamento presero ad uscire disordinatamente i primi caldi spari nerastri, ritmati dal forsennato risucchio dei tromboni dell'aspirazione.

Poi, il suono si fece sempre più deciso, fino ad esplodere in un urlo roco e vibrante. Ora gli scarichi lanciavano ad ogni accelerata lunghi dardi di fumo azzurrino. Alle orecchie di Virgil quel suono rappresentò il canto della sirena e la tentazione di scendere in strada divenne incontenibile. Egli aprì la serranda, risalì a bordo, accese la batteria dei fari, inserì la marcia e partì lungo la strada che costeggiava l'officina.

Il cielo sopra Salt Lake City, non era del tutto buio, un alone violaceo illuminava ancora il profilo delle montagne intorno al Gran Lago Salato. Sotto, sulla strada, una lama di luce correva velocemente incontro alle le tenebre fino ad esserne completamente annullata. Nel buio ritrovato galleggiava ora soltanto un lontano brontolio di tuono, destinato anch'esso ad annullarsi nel potente silenzio del deserto. La pace durò solo alcuni minuti, poi ritornò quel suono, ritornò quella luce, sempre più forti, ad annunciare il loro rientro verso l'officina.

Virgil ricondusse il veicolo dentro il capannone, spense il motore e stette per alcuni minuti ad osservare il mostro emettere vampe di calore, profumate dall'olio surriscaldato, poi richiuse la serranda, spense le luci e finalmente andò a dormire. Nei giorni successivi lo aspettava il meticoloso impegno della messa a punto. I lavori per la clientela, divennero una fastidiosa e banale perdita di tempo, giustificata soltanto dal bisogno di danaro. Le ore notturne si succedettero a ritmo forsennato esaurendosi in modifiche, regolazioni, prove, poi ancora modifiche, altre regolazioni e nuove prove. Fu ancora una volta il gran silenzio del deserto ad intuire che il lavoro era ormai concluso, allorchè i boati e gli spari notturni poco per volta presero a diradarsi.

Virgil partì verso il Pikes Peak a metà della settimana, agganciando al suo van il carrello con il Mormon Meteor. Così battezzò la sua creatura, in ossequio sia alla religione dei padri, sia a memoria di una lontana sfida lanciata sul gran lago di sale da un veicolo con lo stesso nome.
Il percorso da Salt Lake City verso il vicino Colorado fu agevole e tutto sommato abbastanza breve.

Quando vi giunse, utilizzò la massima parte del tempo disponibile per memorizzare il percorso, capire come impostare i curvoni, dove frenare, dove cambiare di marcia e quando affondare l'acceleratore. Le prove cronometrate, stabilirono che il Mormon Meteor sarebbe partito con un tempo onorevole, seppur molto lontano dai tempi dei migliori. Non si sarebbe potuto pretendere di meglio da un veicolo costruito di notte in un angolo d'officina e con poco più di cinquecento cavalli spremuti da un vecchio motore.

Il giorno della gara, il tempo decise di rendere ancor più difficile la salita, nascondendo il sole dietro una densa foschia. Un cappello di nuvole, greve ed uniforme invase tutte le cime: forse ci sarebbe stata anche la pioggia a rendere ancor più insidiosi gli ultimi chilometri.

Fu il turno di Virgil: il Mormon Meteor era pronto sulla linea di partenza. Le temperature erano gia state fatte. Il rombo del motore andò facendosi sempre più frenetico, mentre le dita della mano del cronometrista uscivano in sequenza dal pugno: Uno, due, tre, quattro, cinque, vai! Il mostro ebbe una impercettibile esitazione, poi, con uno scatto improvviso le quattro ruote presero ad aggredire la pista. Occorsero parecchie decine di metri prima che l'esuberante energia del pattinamento si trasformasse in vera forza motrice, scagliando Virgil verso le prime curve. Il suono degli scarichi, cupo e solenne rimbalzava sulle rocce circostanti esplodendo in infinite nuove tonalità, per poi diffondersi nell'aria in un'unica vibrazione metallica.

La corsa verso l'alto aveva preso il suo ritmo, esasperato ma armonioso come la musica: Virgil era il suonatore e la macchina il suo strumento. Le note uscivano perfette, senza stonature. Negli ampi curvoni affrontati in derapata, le ruote posteriori, sfiorando il precipizio, scaraventavano nel vuoto raffiche di sassi e terra. La polvere, spinta indietro dalle ruote, si staccava dal suolo in due alte cortine che si avviluppavano dietro gli scappamenti ricadendo infine tutto intorno, pigre e rarefatte.

Avvicinandosi alla vetta la foschia iniziò progressivamente a farsi più densa, costringendo Virgil a moderare il ritmo ed accendere la batteria dei fari. L'evento temuto fin dalla partenza ed annunciato dalla cappa di nuvole, divenne all'improvviso reale, portando una nuova difficoltà, non più meccanica, non più umana. Alla nebbia andava aggiungendosi ora una pioggerella fitta e sottile, costituendo un insieme gelido ed ostile.

I fari lanciavano fasci di luce che si polverizzavano dopo pochi metri in una cortina riflettente, uniforme ed accecante da spaccare gli occhi.
Fu in tali condizioni che raggiunse l'unico bivio della salita, ben impresso nella memoria, perchè annunciava l'approssimarsi del traguardo.
La segnaletica indicava senza possibilità di errore la corretta via da prendere; non era possibile sbagliare, ma a Virgil sembrò di ricordare che il percorso avrebbe dovuto andare in un'altra direzione. Seguì ad ogni modo, seppur perplesso, le indicazioni. La pioggia, sebbene sempre più intensa, consentiva ancora qualche metro di visibilità, sufficiente per constatare che da quel punto in avanti lo sterrato non portava più i solchi impressi dalle altre auto. Inspiegabilmente parve che il Mormon Meteor fosse il primo a percorrere quel tratto di strada.

La sgomento, sostituitasi alla perplessità rese ancor più incerta la corsa verso il traguardo, almeno fino all'apparire di una gialla luminosità in fondo al rettilineo.
La salita si era fatta più dolce, ed il traguardo era li ormai a poche decine di metri. Almeno così sembrava.
Nell' euforia Virgil non si avvide che quella luminosità non aveva alcuna origine definita e che sotto di essa nebbia e pioggia erano del tutto scomparse. Si accorse invece che nessun essere umano e nessuno striscione erano presenti a segnalare la fine gara.

Ripensò a quel bivio maledetto ed a quel disgraziato che aveva girato i cartelli, ma non riuscì a spiegarsi la presenza di quel tunnel luminoso. Purtroppo ben altre cose, ancor più inspiegabili incalzarono la mente di Virgil: all'improvviso la gialla luminosità svanì nel nulla, così come tacque all'istante il rombo del motore. Silenziosamente una cupola semisferica dai riflessi metallescenti scese dall'alto e si adagiò, amorevole ed inesorabile come il retino dell'entomologo, su Virgil ed il suo Mormon Meteor.

Koplax era rientrato dal suo viaggio interstellare e, come promesso, aveva radunato gli amici nella nuova casa per raccontare le sue impressioni di viaggio in quella zona del cosmo così selvaggia. Aveva anche portato alcuni souvenir raccolti lungo il percorso, tanto per far meravigliare gli amici: un vegetale luminescente, una roccia capace di riprodursi, ed un goffo insettuccio che per deambulare si avvaleva di un esoscheletro metallico facente un fracasso indiavolato e che era stato catturato con un ingenuo trucchetto.


Rinaldo
(3.05.2007)