FERMATA DI COMO !!

L'idea del viaggio, di trovarsi fuori sulla strada, di muoversi da un posto all'altro, occupa costantemente una parte del mio pensiero. Non è necessario che esso si realizzi in forma compiuta, è sufficiente trovarsi in un porto, in una stazione ferroviaria, in uno scalo aereo, perchè i meccanismi che generano il senso del viaggio si attivino, muovendo lo spazio ed il tempo.

Sono i luoghi dove moltitudini di destini si intersecano attraverso chilometri, orari, necessità, emozioni, ansie e piaceri. Il liberarsi di queste energie, esercita su di me un'irresistibile attrazione. Persino il perdersi tra le molteplici linee di una carta stradale stesa sul piano di una scrivania, mi allontana dal presente alla volta di nuove ed improvvisate destinazioni.

Accadde un pomeriggio d'inverno di alcuni anni fa. La festività di sant'Ambrogio mi condusse a Milano per la fiera degli oh bej, oh bej, da anni ormai ridotta a poco più che un immenso anonimo mercatone.
L'atmosfera natalizia del periodo, le luci intense delle bancarelle, la nebbia che dissolve i contorni ed attenua i rumori, il respiro che si condensa nell'aria gelata, il ricordo delle mani di mia madre e di mio padre che si allacciavano alle mie, troppo in alto per essere comode, ma troppo rassicuranti per volervi rinunciare, risvegliarono in me lontani entusiasmi infantili.

Mi ritrovai alla stazione ferroviaria di Cadorna che era già sera. Lasciavo la folla di Milano vivendo un appagamento forse più intellettuale che reale, mitigato però dal rammarico di dovere attendere un altro anno per il prossimo appuntamento con la mia infanzia. Non fu così.

Il treno in partenza mi concesse solo il tempo di varcare il predellino, prima che le porte si chiudessero sibilando dietro le mie spalle. Ora si stava muovendo. Le teste dei passeggeri in attesa sugli altri binari, le finestre illuminate delle case intorno, i pali delle pensiline, i cartelli pubblicitari,e tutto il paesaggio iniziavano dolcemente ad arretrare.

Era questo un convoglio particolare. Le ferrovie Nord, per celebrare il centoventicinquesimo anno dalla loro fondazione, avevano restaurato una vecchia motrice elettrica con relativi vagoni, ridipingendoli della vecchia tinta blu dell'epoca e mantenendo le vecchie panche a listelli di legno. Solo una incomprensibile illuminazione al neon disturbava l'armonia di quell'atmosfera d'altri tempi.

L'orario di massimo affollamento mi costrinse a stazionare per molto tempo sulla piattaforma, dividendo il poco spazio disponibile con troppi altri passeggeri. Solo dopo numerose fermate, con la discesa di parecchi viaggiatori, potei iniziare la ricerca di un sedile libero. Fu allora che, finalmente in grado di poter vedere l'esterno attraverso un finestrino, mi resi conto di aver sbagliato percorso. Saronno era già stata oltrepassata e dopo alcune ulteriori fermate il treno avrebbe raggiunto la destinazione finale di Como. A questo punto non mi rimase altra decisione che arrivare al capolinea per riprendere poi la via del ritorno.

Attraversai alcune vetture prima di individuare un posto libero. Esso si trovava in un vagone del tutto simile agli altri, ma gli arredi e le stesse panche di legno avevano un'aria molto più dimessa, all'odore di nuovo della vernice usata per il restauto, si era sostituito il tanfo stantio del fumo e del ferro ruggine. Evidentemente non era stato fatto alcun intervento. La luce, molto più fioca, era diffusa dalle vecchie plafoniere in vetro a forma di calice di fiore capovolto. Faceva anche molto più freddo. Persino le sembianze dei passeggeri sembravano essersi adattate alla modestia del vagone: I cappelli sul capo di molti uomini ed i foulard che, numerosi, incorniciavano il volto delle donne, sovrastavano una predominanza di grigi cappotti. Nessun piumino dai vivaci colori, nessuna scarpa da jogging. I sedili attorno al mio erano occupati da una famigliola. Alla mia destra sedeva il capofamiglia: un uomo giovane, poco più che trentenne, dallo sguardo severo e dai capelli neri. Di fronte sedeva la moglie, anch'essa mora, dal colorito olivastro. Gli zigomi alti, accentuavano la sua magrezza. Anche il loro abbigliamento non si discostava granchè da quello degli altri passeggeri. L'apertura del lungo cappotto indossato dalla donna lasciava intravedere una altrettanto lunga gonna che, sebbene seduta, terninava ben sotto le ginocchia. Ma la vera curiosità era il bambino, moro come la madre e dallo stesso sguardo severo del padre. Pur in pieno inverno, portava ancora i pantaloncini corti ed un paio di lunghi calzettoni di lana. Sul capo un cappellino a zucchetto fornito di una corta visiera e del paraorecchie. Il cappottino era confezionato con la stessa stoffa di quello paterno. Giocherellava con una piccola automobilina rossa, dalle fattezze di una vecchia auto da corsa. Con versi della bocca ne imitava il rombo.

Ignorando del tutto la mia presenza, l'uomo e la donna continuarono nei loro discorsi. Capii che si trattava di una famiglia dalle modeste possibilità economiche, come molte altre alle prese con la attuale difficile quadratura dei conti di casa. Forse neppure possedevano un automobile in quanto citavano nelle prossime voci di spesa il solo bollo della moto. Sicuramente possedevano una stufa, lamentandosi dell'aumentato costo della legna. Poi c'era il cibo, ed il salario troppo basso. Strano quel salario, sempre riferito in lire e dal valore talmente modesto da non essere minimamente credibile. Pensai ad un singolare espediente messo in atto per disorientare orecchie indiscrete, forse le mie.

Interruppero i loro discorsi all'arrivo del capotreno per il controllo dei biglietti. Questi indossava un anacronistico pastrano scuro, una nera borsa a tracolla, e sul capo un berretto a visiera con una sottile greca in oro. Obliterò per primo i due piccoli cartoncini stampati presentatigli dalla mano dell'uomo. Poi, pensai, sarebbe toccato a me giustificare un biglietto con destinazione differente. venni invece del tutto ignorato, nemmeno uno sguardo, come se il sedile da me occupato gli risultasse vuoto. Cercai di vincere il senso di profondo disagio, rivolgendo la parola alla giovane coppia, ma avevano ormai ripreso i loro discorsi, senza badare a me ed alla mia voce. Ora il disagio si stava trasformando lentamente in angoscia. Non riuscivo più ad inventare qualcosa di razionalmente credibile per giustificare quanto mi stava accadendo.

Discesi a Como col respiro corto come se un nodo di cravatta troppo stretto mi stesse lentamente soffocando. La stazione era poco illuminata: L'unica normalità era l'ora indicata da un vecchio orologio pubblico. I pochi manifesti pubblicitari, reclamizzavano prodotti fuori commercio ormai da decenni. Rivolsi un ultimo sguardo al convoglio che mi aveva condotto fin qua: ora tutti i vagoni spandevano un'unica luce fioca. Su un binario lontano manovrava una locomotiva a vapore. Avrei voluto fuggire via da li, alla ricerca di un qualunque rassicurante aggancio con la realtà del mio tempo, ma un'inesorabile forza di attrazione mi costrinse a seguire i passi di quella strana famigliola.

Non vi era nebbia a Como; l'aria fredda della sera rendeva tremule le luci dei lampioni del lungolago. A destra, una funicolare si arrampicava faticosamente lungo il fianco della collina. Poche auto dai grandi parafanghi e dalle luci giallognole percorrevano il corso principale. Davanti a me, si allargava l'inchiostro nero del lago sul quale galleggiavano alcuni battelli dal lungo fumaiolo. Tra essi troneggiava la sagoma scura di un grosso scafo a ruote, il Patria.

Lo ricordo benissimo: me lo indicava sempre mia madre, quando si veniva a Como da Cernobbio, dove abitavamo. Si alternava nel trasporto dei passeggeri con il suo gemello Concordia. Io non sapevo ancora leggere ma potevo distinguere uno dall'altro per la lunghezza del loro nome scitto a lato della prua.
Salirono sul filobus, pagando la corsa con piccole monete d'alluminio. Non mi fece più meraviglia il fatto di essere ancora una volta ignorato dal bigliettaio. Scesero al capolinea, Cernobbio.

Ricordo ancora bene Cernobbio: si abitava in un modesto appartamento nella dependance di villa Bernasconi, assegnato ai nonni sfollati da Milano per i bombardamenti. A lato della casa si stendeva il parco; non particolarmente esteso, ma più che sufficente per contenere tutte le esigenze del mio mondo fantastico. Lo dominavano immensi platani dal cui tronco si staccavano sottili brani di corteccia. Sul fondo, a ridosso del muro di cinta che lo separava dalla strada, era un piccolo boschetto di canne di bambù, svettanti verso il cielo nel loro colore verde tenue. Cingeva il tutto un sentiero col fondo di ghiaia, delimitato da siepi di sempreverdi dalle bacche rosse. La facciata della casa, una bassa costruzione di un solo piano, era interamente ricoperta da una pianta di rose rampicanti.

L'ingresso della villa era a pochi passi dalla fermata del filobus. Li seguii mentre vi entravano; la ghiaia del vialetto scricchiolava ritmicamente sotto i loro passi. Aggirarono la portineria dietro la quale si affacciava l'appartamento. L'uomo si avvicinò al portoncino, lo aprì, e varcarono la soglia. La porta si richiuse di fronte ai miei occhi increduli. Su di essa una targa con un nome: Ceruti Aiace. Era il nome di mio padre! Quella era la mia famiglia. Quel bambino ero io.

Da quella sera, non mi è stato più concesso di ritornare al presente. sto vivendo nel mio passato, contemporaneamente spettatore ed attore di un film girato cinquant'anni prima. Solo quando sarò giunto al termine della mia strada potrò fermarmi ed attendere che quel bambino mi raggiunga.

Allora, e solo allora, il suo tempo tornerà a fondersi col mio.
-Rinaldo!, stai ancora dormendo? Svegliati, altrimenti perdi il treno per Milano!
-Non importa, ho deciso di utilizzare l'auto, intanto un parcheggio da qualche parte lo trovo!

Rinaldo
(08.01.2007)