Berlino e... ritorno

Prefazione:

Queste righe sono dedicate a tutti gli uomini che la guerra rese involontari eroi. Eroi silenziosi, umili e sconosciuti, senza medaglie nè encomi ufficiali perché il loro coraggio non si manifestò in nessuna azione militare, per nessuna patria, ma unicamente in difesa di quella dignità umana della quale furono al tempo stesso beneficiari e custodi.

Essi combatterono, molto spesso senza averne consapevolezza, contro la devastazione e l'annullamento delle coscienze, sfidando la più perversa essenza della guerra, quella che colpisce da dentro, che trasforma irrimediabilmente, che, attraverso il presente, nega la speranza di un qualsiasi futuro. Combatterono con l'unica arma a disposizione: la volontà di sopravvivere per poter essere presenti allorchè la pace si fosse nuovamente affermata.
Gente comune, risucchiata dentro fatti che mai avrebbero immaginato di dover affrontare, ignari di quale sarebbe stata la loro sorte, strappati dall'incerta quotidianità che quel periodo rendeva ancor più labile e avara.

Nel narrare questi eventi, il mio pensiero ritorna alla memoria di mio padre il quale ne fu partecipe quando la guerra, seppur condannata a un rapido epilogo, fu ancora capace degli ultimi furibondi sussulti, vibrati dalla cieca ferocia di un ciclope non ancora rassegnato a morire.

Anch'egli fece parte dell’immensa schiera degli eroi minori, ciascuno con la propria battaglia da combattere, differente per ognuno di loro, e differente giorno per giorno, affrontata perché la sera li ritrovasse ancora vivi, perché fossero presenti al sorgere ed allo spegnersi di un nuovo giorno. Avanti, senza sapere come e quando tutto ciò avrebbe avuto il suo epilogo.

Nella memoria della mia generazione rimangono indelebili gli sprazzi di queste storie labili, raccontate dai nostri padri con un distacco, una naturalezza, quasi che le esperienze individualmente patite fossero appartenute ad altri. Anche in tempi recenti, quando ormai pochi giorni lo separavano dal suo definitivo distacco dalle cose terrene, quando i bilanci di un’esistenza si esauriscono ormai in poche svogliate frasi, mio padre ancora mi ripeteva una considerazione molte altre volte espressa: a lui la vita aveva riservato tanto sia nel bene che nel male, ma puntualmente anche gli accadimenti più drammatici riuscivano all'ultimo istante ad avere una loro redenzione, una sterzata improvvisa fatta l'attimo prima dell'impatto contro il muro della disperazione; un'imprevista via di fuga apertasi dal nulla grazie, come lui affermava, alla fortuna, ed alla mai completa consapevolezza della gravità di quanto egli stesse per affrontare. Forse, se fosse stato credente, avrebbe potuto chiamarla provvidenza.

Prologo:

L’anziano uomo stava seduto sulla poltrona del salotto. La vestaglia che aveva indosso, scopriva senza pietà né pudore la magrezza del suo corpo, ormai pronto per affrontare l'ultimo viaggio, quello che la morte aveva disposto molti decenni prima e che poi aveva inspiegabilmente sospeso, forse per onorare la caparbia tenacia con la quale quell'uomo, con tutte le sue forze, ebbe a respingerla.

Ora essa gli concedeva l'ultimo regalo: un lavoro ben fatto, rapido e inesorabile che consentiva a quella di risparmiare tempo ed a lui tanta sofferenza in meno. Era ormai passato quasi un mese dalla sua ultima uscita da casa; le gambe non lo sostenevano più e le ore passate nel letto erano divenute la parte predominante delle sue giornate. Non più altro abbigliamento che quella vestaglia, così solerte e premurosa nella sua servizievole umiltà.

Egli teneva in grembo un vecchio album di fotografie dalla copertina di cuoio sdrucita dal tempo. Sfogliandolo con lentezza, indugiava su ciascuna immagine per un tempo infinito. Era evidente che in quel momento la sua mente era entrata a far parte delle pagine, camminandovi dentro lentamente, con quella leggerezza che solo i passi della memoria consentono. Egli stava ripercorrendo, attraverso quell'album, tutta la sua esistenza, quasi volesse ritrovare, nelle testimonianze di una vita vissuta, una giustificazione accettabile per la fine imminente. Ogni istante di vita, congelato sulla superficie traslucida delle immagini, diveniva per lui l'indispensabile viatico che lo avrebbe accompagnato nel suo ultimo viaggio.

Le fotografie erano state fissate sull'album in modo del tutto casuale; come uno sconclusionato mosaico, correvano avanti e indietro nel tempo, mescolando argomenti, soggetti e paesaggi, colori e bianco e nero. Non era facile trovarvi un filo logico perché in fondo, più che d’immagini, si trattava di una raccolta di sensazioni, testimonianze di un insieme scomposto di molecole di vita.

Solo due fotografie non avevano un posto assegnato nell'album. Esse fluttuavano libere tra le pagine per l'impossibilità di dar loro una sistemazione coerente nel tempo e nello spazio. Erano del tutto estranee, messe lì con l'intento di custodire un lontano ricordo troppo importante per essere dimenticato, troppo intimo per essere divulgato. Come ospiti clandestini dividevano la loro esistenza tra l'inopportuno e il consentito, tra l'indulgenza e la colpa. Eppure quelle due foto senza dimora, sovrastavano con la loro capacità evocativa ogni altro ritratto dell'album, scuotendo dal fondo i sentimenti del vecchio con il loro carico di amore fragile e struggente. Amore vissuto lo spazio di pochi giorni, ma la cui ombra si allungava oltre l'esistenza stessa dei due lontani amanti, avvampando l'ultimo sussulto del giorno e della vita che andava spegnendosi. Esse mostravano i ritratti di una donna con i propri figli, due maschi ancora in tenera età. Tutto di quelle foto parlava di cose lontane nel tempo e nei luoghi. Due scatti fatti in successione sulle nevi dei monti Tatra, probabilmente dal capofamiglia, che non vi appariva. Dominavano la scena, i sorrisi di un momento felice fissato sulla pellicola durante la vacanza invernale di una famiglia berlinese, sicuramente agiata. Nulla nei loro volti faceva presagire l'imminenza di un evento sconvolgente che come una valanga di paura, polvere e sangue si sarebbe abbattuta sulle loro esistenze, costringendole a un nuovo destino violento ed imprevedibile.

Lo sguardo del vecchio si era fatto ancor più immobile sopra i due ritratti che ora teneva fra le sue mani; il bianco, il nero e tutti i toni del grigio si confondevano in una foschia sempre più densa, che ne offuscava i contorni. Il silenzio che usciva da quelle foto sollecitava la memoria a ritrovare una nuova ragione di esistere, a replicarsi in un’imprevista reincarnazione, a superare la barriera del tempo per nascondersi alla morte che, paziente, aspettava dietro l'ultima pagina dell'album.

La storia:

L'otto settembre del 1943, era ormai passato da oltre un anno, ma la dolcezza dell'autunno che accarezzava Como, pareva far dimenticare la presenza dell'occupazione nazista. Da un'immaginaria visione dall'alto il panorama era sempre lo stesso; nessun dettaglio che testimoniasse quanto la vita degli abitanti fosse invece mutata. La luce d'ottobre, depurata dalle foschie dell'afa estiva, sprigionava colori caldi e nitidi, i cui dardi rimbalzavano sull'argento del lago, sui grossi battelli ormeggiati accanto alla riva e sulle case le cui ombre si facevano lunghe prima del tramonto del sole.

Soltanto ad una più attenta osservazione si poteva notare un'insolita mancanza di turisti; quei lombardi di pianura inconsapevolmente attratti da quel paradosso che non è più fiume e che non sarà mai mare e che, a piccoli gruppi, si diluivano sul selciato del lungolago. Anche la presenza dei comaschi appariva d'altro canto più rarefatta. Da tutto ciò risaliva verso l'alto una vibrazione, una strana increspatura dell'etere che sapeva d’incertezza, di attonita perplessità.

Era necessario acuire ancor più lo sguardo perché apparisse aspra e ineludibile la condizione di città occupata.

Ne facevano testimonianza i veicoli militari che erano i soli a percorrerne le vie e la presenza di gruppi di soldati nazisti che stazionavano in piazza Cavour, addensati davanti all'albergo Barchetta, divenuto il loro quartier generale.

Anche per il Nèlli (questo frivolo soprannome gli fu dato per addolcire l'imbarazzo di un nome troppo faticoso da portare, unica eredità lasciata dallo zio Aiace) era ormai passato più di un anno da quando aveva abbandonato la polveriera di Arzene, con le sue casematte sparse tra il granoturco e le vigne della campagna friulana. Come tanti altri suoi compagni, se ne era precipitosamente allontanato quando alla voce di Badoglio, avevano fatto eco le voci dei paesi vicini ormai travolti dal clangore dell'avanzata nazista. Ai militari era rimasto soltanto il tempo per sostituire alle divise gli abiti borghesi e sparire tra le brume dei campi che fumavano di concime. Questione di attimi, troppo pochi, per chi aveva tentato di portarsi via l'Alfa Romeo abbandonata dal comandante; non ebbe nemmeno la consolazione di udire il rombo del sei cilindri che già una raffica di mitragliatrice sbriciolò il parabrezza, inchiodandolo tra il volante e il sedile.

Il Nèlli ce l'aveva fatta, rientrando a Como dentro i suoi nuovi abiti borghesi, senza altro bagaglio che la mutevolezza dei suoi stati d'animo. Lo incuriosiva la nuova dimora assegnata ai genitori sfollati da Milano, lo immalinconiva il rimpianto per la vecchia casa in Cesare da Sesto, rovinata in un cumulo di macerie dopo uno dei tanti bombardamenti, lo inteneriva il ricordo del Friuli, dove la vecchia famiglia dei Maniago, contadini da mille generazioni, gli aveva concesso, oltre al posto fisso sulla panca attorno al focolare, anche il sorriso di Maria, sua sposa promessa.

Da quel settembre del quarantarè aveva vagabondato tra Arzene, Como e Milano, uno tra gli infiniti sbandati che popolavano l'instabile limbo di coloro che nè avevano aderito alla repubblica di Salò nè erano saliti in montagna per combattere la lotta partigiana. Il Nelli aveva scelto la sua terza via, fatta di espedienti, di piccoli commerci, di qualche lavoro saltuario; una sopravvivenza vissuta occasione per occasione, nel precario equilibrio di una libertà consentita dai lasciapassare tedeschi da lui falsificati.

I timbri necessari se li era procurati a Milano, nella bottega di uno sconosciuto artigiano. Fu forse per premiare quest’atto di temeraria incoscienza che la fortuna decise di prendersi cura del Nèlli: infatti, il proprietario inspiegabilmente non si peritò di indagare sulla ragione di quei timbri, tantomeno verificò con il comando tedesco l'attendibilità di quell’insolita richiesta. L'unico accorgimento che il Nèlli mise in atto fu al momento del ritiro: attese, infatti, l'orario di chiusura per presentarsi in negozio, ritirare quanto ordinato e svanire veloce tra il labirinto di viuzze che, come una ragnatela, circondavano le colonne di San Lorenzo. In tasca aveva finalmente il suo trofeo conquistato tra la paura e il dubbio, pesante come il piombo e rovente come l'acciaio fuso.

La presenza di questa moltitudine di giovani uomini, evanescente come la brezza che soffia sul lago, frazionata in migliaia di individualità tra loro sconosciute ed animata da bisogni differenti, non poteva certo rappresentare per i nazisti un immediato pericolo, ma il sospetto che essa fosse molto più affine alla lotta partigiana che ai roboanti proclami dei nuovi invasori, li aveva indotti ad intraprendere immediate ed efficaci misure coercitive. L'obiettivo fu perseguito con ogni mezzo: dal capillare ricorso alle retate, alla delazione, ad ogni altro possibile inganno.

Anche per il Nèlli l'esistenza si presentava con il volto di un Giano bifronte: da una parte sentiva urgente la necessità di un lavoro che soddisfacesse il bisogno di una stabilità quotidiana dove l'oggi e il domani potessero finalmente coniugarsi; un lavoro onesto e defilato che non suscitasse nessun sospetto e nessuna curiosità da parte di chiunque.

Dall'altra, premeva forte la volontà di salvaguardare la propria libertà d'azione rinviando la decisione per quale patria doversi schierare: per quella ingannevole voluta dagli occupanti che fondava sulla menzogna la propria ragione di esistere, oppure per l’utopia di un mondo più giusto la cui realizzazione imponeva uomini deliberati, capaci di sostenere anche l’estremo sacrificio.

Tutto questo giustificava la ragione del disimpegno del giovane sbandato; la sua vita, i suoi pensieri, le sue azioni si dovevano muovere libere all'interno di un universo che era solamente suo, libero da qualsiasi vincolo, da qualsiasi ideologia, da qualsiasi legame sociale. Esso rispondeva alle più elementari regole della convenienza individuale che si modificavano ogniqualvolta il momento contingente lo richiedesse. Nessun ideale, ma solo la ricerca assidua di una qualsiasi forma di equilibrio che potesse amalgamare il tumultuoso avvicendarsi di fatti ogni giorno differenti. Un’armonia che evocava un passato recente e non ancora sopito, ricordato come lo scorrere pacifico del tempo dentro il quale abitavano sogni e progetti. No, questa esistenza provvisoria che lo aveva strappato dalle sue certezze, che andava vissuta giorno per giorno, con la capacità tutta musicale dell'improvvisazione, non si adattava all'indole del Nèlli alla quale egli contrapponeva un individualismo esasperato, una chiusura completa a qualsiasi forma di omologazione. Questo suo essere cane sciolto, anonimo ed ignorato da tutti, gli permetteva altresì una libertà di movimento, altrimenti impossibile.

Fu leggendo un quotidiano locale, recuperato chissà dove, che la curiosità del Nèlli venne sollecitata da un'offerta di lavoro che pareva ritagliata proprio sulle sue aspettative: era uno scarno trafiletto, poche righe in neretto con il quale si annunciava la selezione di un piccolo gruppo di autisti destinati ad eseguire il trasporto di merci per conto di una società autorizzata dal comando tedesco. "Retribuzione adeguata alle capacità”. “Gli interessati sono pregati di presentarsi presso... il giorno...con i seguenti requisiti...".

Al luogo dell'appuntamento si presentò molto presto il mattino, ma la sala entro cui si sarebbe svolta la selezione, era già affollata da molti altri giovani uomini, giunti lì ancor prima di lui, nella speranza di potersi accaparrare i pochi posti disponibili per diritto di presenza.

Nell'aria resa azzurrina dal fumo delle sigarette, aleggiava un allegro entusiasmo, una sorta di gioiosa eccitazione per una possibile svolta nella vita di ciascuno di loro. Ad ogni nuovo ingresso Il brusio che saliva verso il soffitto cresceva gradualmente d’intensità fino a divenire un chiassoso vociare. Ognuno aveva in tasca la speranza di essere tra i prescelti, e con essa, la curiosità che il laconico trafiletto suscitava nell'immaginario di tutti i presenti.

Col passare del tempo e con ulteriori nuovi arrivi, il locale si era ancor più animato, fondendo le voci in un concitato frastuono. Lo spazio rimasto libero si era ridotto a tal punto da rendere difficoltoso qualsiasi spostamento, saturando l'aria dell'odore acre di fumo e di aliti surriscaldati.

In un tale affollamento, la speranza che ognuno aveva coltivato per una possibile assunzione, andava scemando in una sempre più flebile aspettativa. Nonostante ciò, questa massa umana, pur divisa, sminuzzata, oscillante tra il disincanto e un atomo ancora d’illusione, restò lì compatta come il legno spesso, senza che nessuno prendesse la decisione di abbandonare la sala. Passò molto tempo ancora, arrivarono ancora altri candidati, ma la porta contrapposta all'ingresso e che nascondeva altri ambiti della palazzina, restava sempre chiusa; nessun addetto che raccogliesse i nominativi, che invitasse a pazientare ancora un attimo, che desse una benché minima indicazione.

Quasi nessuno in quella calca assordante si accorse dell'istante esatto in cui quella porta si spalancò con la violenza improvvisa di un colpo di vento. Attraverso i battenti spalancati irruppe nella sala, un manipolo di uomini armati i quali, impedita ogni possibilità di fuga, incanalarono tutti i presenti lungo un corridoio fatto di divise grigie e fucili e che sfociava all’esterno dove numerosi camion attendevano con il motore in moto.

Nel salone fattosi improvvisamente muto, risuonavano soltanto gli ordini secchi urlati dai militari. Frasi spezzate, monosillabi, incomprensibili nel significato, ma sinistramente eloquenti nelle intenzioni. In quel contrasto tra il silenzio di molti e lo strepito di pochi, morivano ad una ad una tutte le speranze, mentre risaliva alla coscienza la cupa consapevolezza di un domani carico di minacce.

Sul camion che lo conduceva verso la stazione ferroviaria, stretto tra la moltitudine di corpi stipati sul cassone, il lago apparve agli occhi del Nèlli come un succedersi di lampi di luce dorata che s’insinuavano tra le schiene, le gambe, le braccia dei suoi compagni. Dietro, il telone svolazzava nell'aria ancora tiepida come un gigantesco fazzoletto agitato per un addio.

Lungo il breve tragitto che separava il lungolago dalla stazione, nei pensieri del Nèlli stava montando la rabbia per l'inganno subito e con essa il rammarico per quell'imperdonabile attimo di debolezza, per quella falla apertasi nel muro della prudenza, che lo avevano condotto dentro quel salone senza uscita. Sopravviveva ancora, tremula come una fiamma che va spegnendosi, la speranza che quel trasbordo, seppur così improvviso e brutale, avesse ancora una qualche attinenza con quell'inserzione, ma le imprecazioni a mezza voce, la disperazione sommessa dei suoi sconosciuti compagni, soffocavano in lui ogni illusione.

La stazione ferroviaria, raggiunta in pochi minuti, replicò nuovamente la consumata ritualità degli ordini secchi come frustate, dei militari schierati a dirigere quella carne giovane, disorientata e docile sopra i carri merci che attendevano con i portelli spalancati. Passarono altre ore di attesa prima che il convoglio iniziasse a muoversi, poi, alcuni sussulti, il fischio della locomotiva e l'ombra delle grate che lentamente scivolava lungo i volti dei deportati, decretarono che il confine tra il presente e l'ignoto era stato ormai valicato.

L'animo del Nèlli, cosi come per molti altri compagni, si dibatteva tra la faticosa presa di coscienza di una realtà che veniva avanti con tutto il suo carico di minacce e la nostalgia per i piccoli universi individuali, per quegli sprazzi di vita comune lasciati alla stazione e che ora il treno irrimediabilmente stirava fino allo strappo finale. Nella nuova stagione delle domande senza risposta, altri protagonisti vi erano entrati a far parte: genitori, mogli, figli, fidanzate e amici, la cui vita da quel giorno avrebbe consumato il proprio tempo nel crudele alternarsi di speranze e delusioni. Indifferente a tutto ciò, Il convoglio correva libero verso luoghi sconosciuti senza che da esso potesse uscire un solo suono, una sola parola, perché quei carri, al di fuori dei deportati e dei loro aguzzini, erano fantasmi senza voce.

La gioventù che, impaurita, viaggiava nascosta sotto la pelle dei deportati, presto avrebbe ripreso il proprio coraggio mandando segnali di una vitalità non ancora piegata. Essa sarebbe stata presente tutte le volte che una minaccia indefinita si fosse trasformata in un pericolo reale. Sarebbe stata quest'energia primordiale che, contrapponendosi a ogni insidia, avrebbe continuato a pulsare lenta e instancabile fino all'estrema possibilità, là dove tutto si gioca lontano della ragione, nel regno indiscusso dell'istinto.

All'interno dei carri puzzolenti di vernice rancida e ferro ruggine non era possibile intuire il percorso del convoglio. I deportati potevano soltanto percepire alcuni particolari del tutto insignificanti: i rallentamenti, le salite, le curve e l'ombra delle stazioni oltrepassate in un procedere lento, ma inesorabile. Le poche soste concesse per i rifornimenti d'acqua e carbone e per aggiungere altri corpi a quelli già stivati, erano lunghe, estenuanti. Il digiuno per i giovani stomaci dilatava il tempo in una dimensione irreale. Eppure, nonostante il lento avvicendarsi di giorni e di notti, al Nèlli l'arrivo a Golling Abtenau sembrò giungere veloce ed inaspettato. Il treno fu definitivamente arrestato davanti alla piccola stazione di quell'insignificante paese, adagiato tra le pigre alture del salisburghese.

Il paesaggio che lo accolse denunciava un autunno molto più severo rispetto a quello lasciato a Como. Sulle colline, che costituivano l'avamposto di montagne più alte e lontane, i larici gettavano macchie giallastre sul verde intatto delle abetaie; l'aria del mattino era cristallina e lanciava i suoi impulsi gelidi dentro gli abiti ancora estivi del gruppo dei prigionieri, costringeva i loro muscoli ad un'incontrollata vibrazione.

Il campo di raccolta dei prigionieri era composto da poche schiere di baracche di legno, costruite in fretta, recintate da lente volute di filo spinato. In realtà, la sua funzione non era tanto quella di campo di prigionia, quanto di luogo di smistamento, dove i prigionieri erano schedati, esaminati e giudicati, prima di essere assegnati a luoghi ancor più lontani.

La loro condizione di sbandati da punire con severità, sfruttandoli con il lavoro duro, e sfiancandoli con le fatiche, senza però privarli della vita, li poneva in uno stato d’illusorio privilegio nei confronti dei prigionieri politici o, più ancora, degli ebrei, per i quali era riservata la certezza dei campi di sterminio. Tale situazione di vantaggio consentiva loro delle condizioni di vita che, seppur lontane dalla dignità alla quale ogni prigioniero avrebbe avuto diritto, offrivano almeno una qual possibilità di sopravvivenza, pagata però al caro prezzo della denutrizione e delle malattie.

A Golling Il cibo era scarso: pochi tozzi di pane di segale, e sempre, sia a mezzogiorno che alla sera, la stessa brodaglia di rape o patate, scipita e avara come una vecchia zitella. Nel campo i sorveglianti organizzavano il lavoro dei prigionieri secondo una rigorosa turnazione che non escludeva nessuno dalle attività programmate: dalla pulizia delle baracche, alle piccole manutenzioni al servizio in cucina.

Tutto era impostato per assicurare un ingannevole criterio di equità generale dietro il quale traspariva l'irridente ottusità di un potere bieco e autoritario. La corvèe in cucina era attesa come l'incarico più ambito perché offriva la possibilità di ricercare tra gli scarti del cibo qualcosa di ancora recuperabile, utile per attenuare i morsi della fame che andava accumulandosi di giorno in giorno. Soprattutto la pelatura delle patate rappresentava l'occasione più ghiotta: con qualche sotterfugio si poteva tagliare, assieme alla buccia, anche un certo spessore di parte commestibile; alla sera gli scarti, furtunosamente recuperati, sarebbero stati poi cotti sulla stufa della baracca e mangiati.

Per il Nèlli il periodo di sosta nel campo di Golling durò ancor meno rispetto agli altri suoi compagni. Fu un moto di stizza, una ribellione per una dignità troppe volte e troppo duramente calpestata a spingerlo a disobbedire al comando di un caporale nazista. Nèlli era una persona dal carattere impulsivo, il cui amor proprio lo portava a reazioni che spesse volte non tenevano conto delle possibili conseguenze. Il gesto esasperato per un apparecchio radio malamente sbattuto sopra uno scaffale, gli costò, assieme ad una scarica di percosse, l'immediata ripartenza per una nuova e ben più lontana destinazione: Berlino. Abitò dunque altri carri ferroviari con i soliti finestrini posti in alto, con le solite sbarre e le solite ombre che scivolavano sui volti di nuovi compagni sconosciuti. A tutto ciò, si erano ora aggiunti due nuovi intrusi, ostili e appiccicosi come il vischio: il freddo e la fame.

Il viaggio questa volta sembrò non aver mai termine trascinandosi lentamente fino al suo epilogo annunciato dallo stridio dei freni e dall'ultimo interminabile ansito di vapore della locomotiva. Nella luce livida del mattino che improvvisamente aveva spazzato il tanfo soporoso del vagone, al Nèlli apparve, immensa, grigia ed imbozzolata nel gelo la sua nuova meta. 

Berlino stava ormai trascinando i suoi ultimi mesi di agonia; al ghiaccio che la imprigionava, si contrapponevano le fiamme e il fumo degli innumerevoli incendi provocati dai bombardamenti, mentre da lontano, ancora molto lontano, il suolo germanico aveva già iniziato a vibrare sotto i cingoli dei carri armati sovietici il cui acciaio stava inesorabilmente dilagando lungo i confini orientali.

La città si parò innanzi al Nèlli in tutta la magnificenza di secoli di grandezza; pareva un gigante possente e bellissimo, ma le ferite che ne deturpavano il corpo avevano brutalmente accorciato il suo respiro. Nelle sue vene la vita scorreva ancora, conservando un'effimera immagine di efficienza con le sue metropolitane, i suoi viali, i suoi parchi, con una normalità più simulata che reale e che svaniva improvvisa nei rifugi al primo urlo dell'allarme antiaereo. Cessata l'emergenza, l'ostentazione di una dignità ormai perduta, resa ancor più surreale dai nuovi bombardamenti, riprendeva esattamente dal punto in cui era stata interrotta, soltanto con qualche ferita in più e qualche abitante in meno.

Berlino non gli avrebbe più offerto le baracche di Golling le quali, seppur squallide, rappresentavano ad ogni modo una parvenza di dimora, un luogo dove la notte poter raccogliere i propri pensieri, poter organizzare la miglior possibile sopravvivenza per il giorno successivo. Il nuovo ricovero, posto nei quartieri di Charlottenburg era la sala di un vecchio cinematografo parzialmente bombardato dove in luogo dello schermo, si apriva un profondo squarcio che, come un improbabile boccascena di cemento sgretolato, apriva le sue quinte alla luce, all'aria e al gelo.

Stava a guardia dei prigionieri un manipolo di soldati mongoli, forse disertori dell'armata sovietica, arruolatisi, come unica possibilità di sopravvivenza, nelle file dei nazisti; in tutti i casi essi erano destinati a sopravvivere soltanto il breve intervallo che li separava dall'arrivo dei sovietici. Questo probabilmente già lo sapevano, ma nulla, assolutamente nulla dei moti del loro animo, arrivava alla superficie dei loro sguardi, fissi, ieratici; non un’increspatura del viso, non una ruga apparsa improvvisa, non un movimento degli occhi sotto le palpebre semichiuse. Eppure nelle lunghe ore passate nella più totale immobilità, seduti al suolo, con lo sguardo perso in luoghi remoti, avranno sicuramente provato lo struggimento per una terra che non avrebbero mai più rivisto, ma i loro pensieri, anziché passare attraverso i muscoli e la pelle, uscivano attraverso il fumo che saliva pigro dalle loro pipe sempre accese. Indossavano lunghi pastrani e colbacchi dal folto pelo che li rendevano del tutto indifferenti al gelo dei meno quindici. Passavano lunghissime ore in silenzio; nemmeno tra di loro la conversazione si spingeva oltre poche scarne frasi. Impossibile riconoscere sulle labbra la piega di un remoto sorriso.

Nessun contatto con i prigionieri: ti lasciavano stare purché non creassi loro problemi, ma era come trovarsi sul confine di un campo minato, innocuo solo se non tentavi di attraversarlo. Così erano i mongoli, consapevoli essi stessi della fama di spietati esecutori d'ordini che aleggiava intorno ai loro colbacchi senza speranza. La loro generosità si limitava a qualche presa di makorka, il legnoso tabacco del quale si nutrivano le loro pipe e che, se richiesto, era concesso attraverso un lento gesto della mano.

Inconsapevolmente sia i mongoli quanto i loro prigionieri, erano accomunati da una sorta di muta condivisione di sentimenti inespressi, che rimbalzava tra l’ incertezza per il futuro ed il rimpianto di un'esistenza vissuta in pace, annientata da una guerra che nessuno di loro aveva mai voluto e che ora subivano nel profondo dei loro animi.
Il tabacco avuto dai mongoli, non serviva per essere fumato; andava masticato quando, nonostante il gelo, il puzzo della decomposizione dei cadaveri diventava insopportabile, quando anche lo stomaco, intriso da quel fetore che non andava mai via, si ribellava rovesciando nella polvere il cibo maledetto che l'anima e gli altri sensi non cessavano mai di versarvi dentro.

Il Nèlli e i suoi compagni erano stati infatti comandati a spalare macerie nei vari punti della città dove la furia dei bombardamenti aveva trasformato case, vie, interi quartieri in improbabili cattedrali gotiche con le loro guglie contorte e i bislacchi pinnacoli che si ergevano sopra muri sgretolati che ancora fumavano. Centinaia di cattedrali, una diversa dall'altra, spettrali architetture rivolte a quel cielo dal quale era piovuta la loro condanna e verso il quale saliva la maledizione di tutte le vittime morte nel dubbio se guerra e dio potessero mai coesistere.

Berlino continuava a morire, giorno per giorno, ma la follia di una guerra senza speranza costringeva ancora i vecchi e i ragazzini a esercitarsi con le mitraglie lungo il corso ghiacciato della Sprea. Anch'essi, come i mongoli, condannati alla stessa vita corta il cui tempo si perdeva nei solchi lasciati dai carri sovietici, sempre più vicini e sui fianchi dei quali urlava una scritta che era già una condanna: Vendetta!

Per il Nèlli e i suoi compagni fame e freddo divenivano ogni giorno nemici sempre più aggressivi, mutuandosi e rafforzandosi vicendevolmente. L'abbigliamento che li infagottava, rimediato qua e là durante gli scavi, magari sottratto a qualche cadavere, rendeva questi sparuti manipoli di scavatori, una caricatura umana, un’indecente rappresentazione tragicomica svogliatamente recitata in abiti da farsa e con i contenuti di un dramma. Il freddo accomunava in un rapporto simbiotico uomini pidocchi e topi, condividendo, ognuno per il ruolo che la natura aveva loro assegnato, rifugi, nutrimento e calore.

L'indifferenza del tempo veniva avanti inesorabile; così, senza che nessuno se ne fosse accorto, era passato il Natale, e il capodanno ma nessun brindisi, nessun augurio avevano accompagnato le due ricorrenze. La speranza era svanita, sepolta tra la polvere ed i cadaveri che il Nèlli e i suoi compagni continuavano a estrarre dai resti ancora fumanti di un'intimità perduta. La pietà del loro lavoro, imposta dalla violenza di una volontà estranea, era una lotta vana contro un’Idra che si moltiplicava ad ogni bombardamento. Berlino aveva nascosto i suoi colori sotto il grigio della polvere che, come un sudario soffice e silenzioso, copriva la sua maestà violata.

Sopra la città si stendeva bianco il sudario di un cielo sempre pronto a piangere neve gelata. Cielo di nuvole, ma anche cielo di tregua che rendeva la città invisibile al nemico. Tregua che sarebbe durata fino al primo squarcio di azzurro dal quale sarebbe uscito il cupo pulsare del rombo dei bombardieri, l'urlo delle sirene, il martellare della contraerea, le raffiche della caccia levatasi in volo sempre troppo tardi. La città avrebbe così ripreso un’arcana nuova vitalità, al grigio si sarebbero aggiunti tutti i colori della guerra; al gelo, le vampe incandescenti di altre bombe e nuove cattedrali.

Durante uno di questi bombardamenti improvvisi la squadra degli spalatori fu colta all'aperto, lontana dai rifugi, impreparata ad affrontarne le conseguenze.

La sorpresa cancellò in un attimo tutte le regole che legavano prigionieri e guardie, tra l'impenetrabile indifferenza dei mongoli ed il panico dei deportati. Nonostante tutto, la vita ancora rivendicava il proprio diritto di esistere, e lo faceva con violenza, ignorando la ragione, la prudenza e gli ordini. Il panico assegnò a ciascuno una direzione diversa da percorrere: chi andò incontro alle bombe, chi cadde sotto le pallottole dei Mongoli, chi lontano dalle une e dalle altre; ancora una volta, per il Nèlli la sorte aveva deciso per la sopravvivenza.

Al termine dell'incursione, quando ancora la polvere accecava gli occhi e la balistite soffocava il respiro, si ritrovò solo in una via sconosciuta di un quartiere sconosciuto. La sirena che annunciava la fine dell'emergenza suonò alle sue orecchie come un rinnovato ritorno alla vita. Si rese immediatamente conto che quanto il caso gli stava offrendo non era altro che un esile filo steso sopra un baratro e senza possibilità di poter arretrare. Da questo punto in avanti la sua partita se la sarebbe dovuta giocare in perfetta solitudine, assumendosi la responsabilità di scelte i cui risultati avrebbero potuto comportare un nuovo passo verso la libertà oppure la fine.

Al suo sguardo il quartiere sembrava non essere stato ancora colpito dai bombardamenti. A metà della via, un bar dalla serranda semi abbassata annunciava che nonostante tutto in quel luogo l'esistenza godeva di una seppur effimera normalità. Il Nèlli si guardò in giro per assicurarsi che nessuno si fosse accorto della sua presenza e vi entrò, sporco, lacero, affamato, ma vivo.

Esistono circostanze nelle quali, per meccanismi e vie estranei al senso comune, s’instaurano tra persone sconosciute, misteriosi ed improvvisi legami. Pulsioni apparentemente immotivate ma, entrando nei vissuti più intimi, vi si scopre un’attitudine, un’istintiva sensibilità nel riconoscere anche in un gesto o nel semplice incrocio di due sguardi il reciproco bisogno di condividere i propri disagi, la ricerca di una nuova solidarietà, di un’amorevole complicità, di una tregua che rassicuri.

"Sei spagnolo?" esordì la proprietaria del bar.
"No, sono italiano" fece il Nèlli, mettendo malamente in fila quel poco di tedesco che in questi mesi aveva assimilato.
"Strano, pensavo che tu fossi spagnolo"
"Sono italiano, se ti va di parlare con un italiano"

Furono poche frasi quasi del tutto prive di senso logico, per l'uno difficili da articolare, per l'altra difficili da comprendere. Eppure bastò il modo con cui furono pronunciate, forse semplicemente il tono della voce, perché la misteriosa macchina della reciproca intesa iniziasse a tessere la propria rete.

Nèlli fu accolto nell'appartamento della signora del bar per alcune settimane, durante le quali, recuperò energie, dignità e speranza. La donna, di origine cecoslovacca, viveva sola, obbligata dalle autorità a tener aperto un bar che non aveva più niente da offrire a una clientela che non aveva più niente da chiedere: il marito, ufficiale della wermacht, da ben più di un anno non dava notizie di se; le sue ultime lettere parlavano di Stalingrado, di gelo, di controffensive e di ritirate, di rinforzi che stavano per sopraggiungere, di fiducia nella vittoria finale. Ma la signora era certa che il marito non sarebbe più tornato, prigioniero non del nemico ma di quella nera terra russa la cui pietà materna aveva racchiuso nel suo grembo l'ultima metamorfosi di un blocco di carne ghiacciata. Il suo pensiero correva spesso ai due bambini che non vedeva da troppo tempo, con l'unica consolazione di saperli al sicuro nella casa dei nonni in Cecoslovacchia.

Fu un incontro di anime sole, ciascuna segnata dalla violenza degli eventi, ognuna con la propria nostalgia da sussurrare, entrambe con il bisogno di una nuova solidarietà da spartirsi come fosse pane.

Pace era il senso di tutto ciò. Pace nei quartieri devastati, nei proclami deliranti, nell'urlo delle sirene, nel cupo crescendo del rombo dei bombardieri, negli sguardi attoniti della gente dentro i rifugi, nell'anima di ciascuno. Pace, ancor prima che la speranza ritrovi il suo tempo in una differente normalità. Pace che è diventata un patto tra il Nèlli e la signora del bar. Pace perché nell'abbraccio serrato dei due corpi, non resti più spazio per le paure, le sofferenze, le incertezze, perché esse schizzino via lontano da quel letto, almeno per l'effimero trascorrere di un amplesso.

Il calore che finalmente era entrato nel corpo del Nèlli, scorreva lento nelle sue arterie, scivolava sotto la sua pelle, scioglieva i muscoli contratti dal freddo e dalla paura; calore donato da un corpo di donna, concubina e madre; calore capace di sciogliere il gelo di un'anima da troppo tempo asservita all'istinto di sopravvivenza, quello che annulla ogni sentimento, che nutre col suo acquoso alimento il bisogno primordiale di esistere.

La stanza dei due amanti si era trasformata in una bolla di luce dentro la quale un tempo nuovo scandiva il suo incedere con una modalità autonoma, diversa da tutti i tempi che nello stesso istante decidevano le sorti d’infiniti altri esseri umani.

La bolla saliva lenta sopra il fumo acre degli incendi, sopra l'impossibile alleanza tra le case intatte e le macerie, galleggiava sopra gli spari della contraerea, più in alto delle onde argentate dei bombardieri. Saliva nel silenzio e nello spazio tra il desiderio ed il rimpianto, dove comanda soltanto l'attimo che non ha passato né futuro. Dentro di essa, il Nèlli, la signora del bar, un letto e quella gioiosità intima, quella gratitudine al destino che aveva voluto che due storie sconosciute dovessero fondersi in una sola.

Era quella la fortezza del loro presente, vuota di sogni e di progetti, perché quell'amore, i due amanti lo sapevano bene, era figlio illegittimo di due vite in viaggio che per un istante si erano incrociate, ma le cui traiettorie erano in breve tempo destinate ad allontanarsi. Pareva che anche il demone della guerra si fosse improvvisamente intenerito davanti al lento risalire di quella bolla di pace. Fu certo una casualità, ma per tutto il tempo in cui quella stanza visse i giorni del loro incontro, il quartiere godette di un inaspettato stato di quiete.

Col passare dei giorni, lenta ma inesorabile, la smania del ritorno che dentro il Nèlli si era assopita al tepore di una tregua impossibile, cominciò a risvegliarsi, scuotendo la coscienza con nuove inquietudini; la bolla era diventata ormai troppo pesante. Nuovi orizzonti la stavano trascinando giù, più in basso del cielo di Berlino, più in basso dei tetti delle case, nuovamente tra la polvere dalla quale era lentamente risalita. L'anima di Ulisse si stava impadronendo della volontà del Nèlli, mentre lei, la signora del bar, andava maturando la consapevole rassegnazione di Calipso. La storia ancora una volta aveva stabilito che due umili servitori di un destino sconosciuto riprendessero a correre lungo strade differenti e misteriose: Lui verso nuove tappe di un avvicinamento carico di speranza, lei incontro allo stesso destino di morte che la accomunava ai mongoli ed ai ragazzini con la mitraglia.

Fu così che, pochi giorni dopo la tregua, il demone della guerra, riavutosi dallo stupore, si riprese in una sola notte il quartiere e la signora del bar, polverizzando case, vite, nostalgie e speranze. Della signora del bar, all'inconsapevole Nèlli ormai lontano, rimase solamente il dono di qualche banconota, due fotografie, e la gratitudine per ciò che era stato.

A Como, nei giorni immediatamente successivi alla cattura del Nèlli, cominciò ad emergere in famiglia una giustificazione vaga, tutta da verificare, ma almeno capace di rasserenare gli animi. Passato lo sgomento delle prime ore, ci si aggrappò alla speranza che egli si fosse rifugiato presso i Maniago, dove spesso si recava per incontrare Maria. La corrispondenza faticosamente inviata in Friuli ricevette come risposta un’accorata smentita e con essa la presa d'atto di un’inspiegabile sparizione.

L'affermarsi della verità che, pur dura e violenta, sposta gli ambiti di una vaga speranza verso la quiete di una dolorosa rassegnazione, si originò proprio nelle stanze dell'albergo Barchetta presso cui, come cameriere, lavorava il padre del Nèlli. Egli, con discrezione, infinita pazienza, mascherando l'apprensione che gli serrava la gola col distacco di una vaga curiosità, riuscì a ricomporre una ad una le tesserine di un mosaico complesso fatto di molecole di verità, raccolte presso molti uffici le cui bocche reticenti accennavano alle azioni più efferate con la gelida indifferenza del linguaggio burocratico. Ottenne così la conferma che in città alcune retate erano state realmente condotte e che gli uomini rastrellati erano stati avviati ai campi di lavoro in Germania. Questa, ormai ne era certo, era stata la sorte del Nèlli.

Ad Arzene, la notizia partita dal lago arrivò alla cascina dei Maniago con tutto il suo carico di sgomenta incredulità. Poi silenziosamente, come i primi fiocchi di neve che si adagiavano sull’aia, anche la rabbia, l'indignazione, la consapevolezza che un atto di estrema ingiustizia si fosse compiuto, andarono lentamente assopendosi sotto la coltre di una fatalistica rassegnazione.

In questo modo reagiva l'anima contadina, da sempre sottomessa ai mutevoli capricci del destino, dove il silenzio di un'orgogliosa dignità era l'unico anestetico possibile." Maria, rassegnati perché di questi tempi dalla Germania non si ritorna né vivi né morti". Così sentenziò Olimpio, la voce più autorevole dei Maniago, quello della famiglia che aveva studiato.

Il treno dei profughi che da Berlino scendeva verso Praga, fendeva lento il paesaggio di ghiaccio che gli stava intorno, ma i binari erano sempre lì, un metro più avanti del vapore della locomotiva, ad indicare che la via, nonostante tutto, c'era e si poteva percorrerla. Era una via straniera che conduceva un'umanità smarrita lontano dalle proprie abitudini verso luoghi sconosciuti che non avrebbero offerto nessuna certezza, nessuna terra nella quale far ricrescere le proprie radici. Li aspettava solamente una nuova provvisorietà, un ulteriore dilazione del tempo, nell'attesa che gli eventi ristabilissero un equilibrio definitivo nel quale rifondare un nuovo futuro.

Il carico umano che stipava i vagoni, puzzava di paura, rimpianti e poca speranza: umori che andavano addensandosi in una patina umida che annebbiava i finestrini; su di essa si condensavano minute gocce d'acqua che rotolavano veloci verso il basso, segnando il vetro di sottili righe trasparenti. Pareva che nella mestizia di quel tragitto anche i finestrini partecipassero al dolore dei profughi sostituendo con quelle gocce, le lacrime imprigionate nell'anima, ormai incapaci di risalire fino agli occhi.

C'era anche il Nèlli su quel convoglio in viaggio verso Praga. Cercava di stare il più possibile in disparte, di non dare nell'occhio, di non scambiare parola con nessuno, perché lui stava fuggendo; una meta lui l'aveva, precisa e deliberata. Ma su quel treno c'erano anche le ss con i loro controlli, i loro sguardi sospettosi, le loro decisioni arbitrarie. Il Nèlli si era fatto piccolo piccolo; sarebbe voluto diventare un punto invisibile, l'ultima vite nascosta nel legno delle panche, perché la paura, l'ansia e la speranza si erano congiunti in un genio malevolo che dilatava il tempo, che frenava la spinta del vapore, che decideva fermate troppo lunghe e troppo frequenti che materializzava la presenza d’infinite divise. Viveva la sua precaria libertà minuto dopo minuto, accucciato in un angolo del vagone dal quale si muoveva soltanto per consumare in fila un’ occasionale brodaglia calda, distribuita sulle banchine di qualche sconosciuta stazione.

Finalmente Praga, capolinea del convoglio dei disperati e prima tappa del suo avvicinamento verso casa. Attraverso un mescolarsi di apprensione e gioia, di curiosità e di prudenza estrema, la città gli apparve come un miracolo dai tetti d'oro. Berlino era ormai lontana. Lontana era la sua orgogliosa agonia, lontane le macerie, lontano il puzzo dei morti, lontana la paura di non farcela, ma vicino e ancora tiepido come un piccolo sole, il ricordo della signora del bar, la cui anima, ora vegliava sul destino del Nèlli.

Con le giornate che pian piano volgevano verso una voglia di primavera ancora tanto acerba da sembrare un miraggio, anche la speranza del Nèlli si adeguava ai colori più intensi del cielo, a quell'affermarsi della nuova stagione che, incurante dei vivi e dei morti, abbagliava di luce vivida le cupole di rame della città.

Anche Praga se ne stava andando, rimpicciolendosi dietro il rettangolo di vetro di un altro finestrino: nuovi compagni di viaggio stavano ora seduti accanto al Nèlli, ma gli sguardi fissi, il silenzio, l'odore di umano che usciva dai loro cappotti, era sempre lo stesso. L'intera Europa viveva l'ultimo atto della sua tragedia nella concitazione di un finale senza applausi, dove ogni personaggio recitava a braccio la sua ultima battuta. Mentre ormai il sipario calava dietro le loro spalle, milioni di attori facevano l'inchino verso un pubblico fatto di grandezza e miseria, abnegazione e nefandezza, fughe e ritorni, speranza e disperazione.

Ma il treno del Nèlli correva sempre più forte, sempre più giù: Vienna, poi Tarvisio. Finalmente l'Italia. Le ruote d'acciaio si erano trasformate in ossa e muscoli, al vapore si era sostituito il ritmo del passo, mentre i binari si erano dissolti nell'asfalto della Pontebbana.

Le strade che dalle montagne conducevano alla pianura si aprivano benevolmente alle gambe del Nèlli. Erano strade da tempo conosciute, quasi sempre sentieri di campagna che giravano al largo dai paesi e dalle cascine. Sfilavano via lentamente i monconi del granoturco sfiniti dall'inverno, le rogge asciutte, i rovi rinsecchiti, i filari dei gelsi, massicci e ordinati come le colonne di un tempio, mentre il paesaggio, curva dopo curva, andava assumendo un'amichevole familiarità. Una ritrovata energia animava le gambe: il passo si era fatto ancor più sicuro, spedito; Arzene ormai prossima aveva la forza traente di una calamita.

Solamente un'ora scarsa di cammino separava le prime case del paese dal ponte della Delizia, un basso manufatto di cemento che congiungeva le due rive del Tagliamento. Sotto di esso si stendeva uno sterminato letto di sassi e ghiaia, dentro il quale la bizzarria di una vena d'acqua gelida zigzagava da una sponda all'altra.

Sul quel ponte il procedere del Nèlli si era fatto improvvisamente, più incerto: Nella sua mente l'incredulità per un epilogo ormai così prossimo, la smania ansiosa di arrivare, l'apprensione per un futuro che da oggi avrebbe imposto nuove regole, gli legavano il passo rendendolo sempre più faticoso. Si trovava nella terra di nessuno della sua esistenza: su di una riva lasciava l'incertezza dell'oggi, sull'altra lo aspettavano i dubbi del domani.

Lui, con la barba lunga, infagottato nel suo vestire in parte civile e in parte militare, lo zaino in spalla e i pidocchi tedeschi in viaggio con lui, si domandava cosa lo aspettasse dietro il portone dei Maniago: come sarebbe stato accolto? Lo avrebbero ancora riconosciuto? Quali cambiamenti avrebbe trovato? E, soprattutto, che cosa avrebbe custodito Maria del loro comune passato? Ma gli bastò guardare lontano, poco sopra la linea dell'orizzonte, dentro i filari dei pioppi scheletriti dall'inverno, per ritrovare nella sagoma antica del campanile di Arzene, l'energia necessaria per superare quell'attimo di smarrimento.

Era una sagoma familiare, soltanto pochi mesi prima vagheggiata nelle notti di gelo di Berlino, e che ora stava li, piantato nella terra grassa dei campi, a indicargli quanto fosse prossimo il termine del suo viaggio prossimo, ma non ancora concluso, perché il demone della guerra, che da settimane lo inseguiva, ordì la sua ultima disperata azione.

Con la velocità di un fulmine, quello che un attimo prima pareva essere un lontano brontolio, si materializzò tra il fiume e il cielo con tutti i suoni di una battaglia aerea: dal secco crepitio delle mitragliatrici, al monotono tambureggiare della contraerea, ai boati delle bombe, al furibondo latrare dei motori dei caccia.

Si offerse agli occhi del Nèlli il privilegio unico e terribile di trovarsi al di sotto a un'incursione aerea diretta contro il ponte ferroviario, un vecchio scheletro di ferro che si stendeva poco più a valle del ponte di cemento. L'azzurro pallido di un cielo immobile si era contaminato con i nuovi colori della battaglia. L'argento delle fusoliere, le linee arancione dei traccianti, il fumo scuro dei motori, gli sbuffi nerastri delle granate che esplodevano in aria, avevano sconvolto la pace di quel cielo con una nuova dinamica: un incrociarsi di linee e di macchie che apparivano e scomparivano come sulla tela di un pittore arcano. Il Nèlli si era disteso al fianco del gradino che il marciapiedi formava con il piano della strada, con lo zainetto schiacciato sopra il capo, con tutte suoi pensieri che andavano spegnendosi tra gli spezzoni incandescenti che qua e là precipitavano, rotolando sul ponte intorno a lui. Nell'animo, uno scoramento, un sordo rancore per quel destino che, ancora inappagato, gli rubava quei pochi minuti che lo separavano dalla salvezza.

L'incursione durò il tempo di pochi minuti, dopodiché, all'improvviso com’era arrivato, il tuono si disperse lontano, restituendo al cielo la sua immobilità e il suo unico colore. Il tempo del Nèlli ancora una volta aveva testardamente ripreso a scorrere. Una rinnovata speranza, alimentata dalla cosapevolezza di una predestinazione alla sopravvivenza, lo fece alzare dal suo temporaneo rifugio, guardarsi attorno e riprendere ancora una volta la sua marcia verso i Maniago. Il ponte ferroviario, spezzato in più punti, stava adagiato sul greto del fiume. L'acqua gelida che lo circondava, leniva, come una madre pietosa, le sue ferite tra gli sfrigolii e gli sbuffi di vapore che, come anime in fuga, uscivano dal ferro incandescente.

Arzene gli si fece finalmente incontro aprendosi con le sue case grigie di sassi, le sue cascine, la roggia, la sua unica strada polverosa e il portone dei Maniago, dove tramontava anche l'ultimo dubbio, troppo tardivo per fermare la mano che ormai stava spingendo sul battente.

La lama di luce che si allargava sulla vastità della corte, portava ai suoi sensi il sapore di cose familiari, congelate nell'attesa del suo ritorno. Erano passati soltanto pochi mesi, eppure il ritrovare ogni cosa al proprio posto: il grande gelso al centro dell'aia, il portico degli attrezzi sul fondo, l'odore della stalla, il muggito delle vacche, lo svolazzare degli uccelli nella voliera, dava al Nèlli la consolazione che l'eternità consumatasi tra Como, Berlino ed Arzene, aveva perso in quel cortile ogni significato temporale. Non un solo istante si era perso durante tutto il tempo in cui egli ne era stato lontano.

Maria però non era lì e la sua assenza, nel dolce gioco delle nostalgie e delle riconferme, ebbe nell’animo del Nèlli l’effetto di uno scroscio gelato; in quel momento non poteva immaginare che il tempo dell'attesa sarebbe svanito nei dieci passi che separavano i Maniago dai loro vicini di casa, dove Maria in quel momento si trovava. Si fece carico la vecchia zia di far si che i due giovani finalmente si rincontrassero; lieto privilegio portato a termine con quella discrezione e delicatezza che solo le persone anziane sanno avere.

Nello stupore incredulo della giovane donna, il Nèlli capì che il suo cammino si era definitivamente concluso dentro quegli occhi scuri, in fondo ai quali l'esistenza ritrovava un nuovo equilibrio, una propria giustificazione, una ragione forte per ricominciare. All'aprirsi di un sorriso riconoscente, lei gli riconsegnava la speranza conservata intatta, temperata da estenuanti battaglie contro il dubbio e la rassegnazione che, come ombre minacciose, avevano scosso dal profondo la sua coscienza.

31-12-1946. Ormai quasi due anni erano trascorsi dal ritorno del Nèlli dalla Germania. La vecchia compagnia di amici, frantumata e dispersa dalla guerra, si era ritrovata quel giorno per festeggiare l'arrivo del nuovo anno. Erano rientrati tutti, tutti incredibilmente vivi, ognuno con una differente storia, ognuno con la stessa voglia di vivere il nuovo futuro. Milano, ferita dalle bombe, aveva ripreso a risalire lentamente, mattone dopo mattone. C'era nell'aria di quell'ultimo giorno del primo anno interamente in pace, una misurata euforia che timidamente si affacciava nei pensieri degli uomini. Aleggiava nell'aria gelida, una voglia di far festa mitigata dal ricordo ancora vivo di chi la guerra se l'era portato via, intimidita dal demone che ancora abitava nel profondo di esperienze non del tutto rimosse.

Nella casa di via Montevideo c'erano il Nèlli e Maria, arrivati da Cernobbio col treno delle Nord, c'era il cugino Michele, catturato in Africa e internato ad Hereford, nel Texas, c'era il Gianni, ferito in Sicilia, suo fratello Peppino, il Giovanni, il Coppa, il Gualtiero, l'Adriano ed altri ancora con fidanzate e giovani spose, con le vecchie amiche e i loro nuovi compagni. Ballarono lo swing con il grammofono del Michele fin dentro il cuore della notte che si apriva al nuovo anno, felici di esserci, felici di ritrovarsi.

Breve come la vita di una falena, la compagnia, miracolosamente ricomposta, in una sola notte risorse e morì. Un ultimo brindisi nella tardiva mattina del giorno dopo ne decretò la fine.

Ognuno aveva ormai raccolto la sfida che un nuovo prodigo futuro stava loro offrendo. La condizione imponeva che si dovesse correre da soli, mentre guerra e gioventù, terrore ed illusioni, scivolavano lenti dentro la nebbia di quel primo di gennaio.

Epilogo:

La vita che da allora si era consumata nel suo scorrere quotidiano, si posò silenziosa sulle spalle del vecchio per salutare l'amico che se ne andava. Ma il Nèlli si era ormai addormentato mentre le due foto, lentamente, come mosse da un anelito di autonoma sopravvivenza, erano scivolate via da quelle dita senza futuro, adagiandosi silenziosamente sul pavimento. Maria, in silenzio le raccolse, riponendole ancora una volta tra due pagine sconosciute dell'album.



Rinaldo
(21.09.2009)