PIOGGIA A MILANO
La pioggia a Milano è un'altra cosa, è un appuntamento sicuro, un
incontro particolare, esclusivo come un abito di sartoria. E' una
pioggia riconosciuta che entra nel paesaggio con la disinvoltura di chi
sa di esserne parte.
Viene giù stretta tra le facciate dei palazzi, spandendosi sui
lastricati lucidi, cade sui tetti di tegola con il suono del violino,
tuona sulle tettoie di ondolux dei magazzini di periferia. La senti
schizzar via da sotto le gomme dell'auto con lo sciacquio di una cascata
di montagna. Scorre nelle orecchie delle case, tra la sala e la camera
da letto. T’invita a guardar fuori mentre spande tutto quel grigio che
invade il cielo, che cola nelle strade, che toglie il colore agli
ombrelli aperti.
Pioggia nell'aria, pioggia nella testa. La pioggia è un'idea che non se
ne va, che riposa pigra nel cervello, che allaga ogni pensiero.
E' diventata un'isola anche il tram che mugola lasciando la fermata, con
i suoi pavimenti di gomma lucidi d'acqua e le infinite pozzanghere
lasciate dagli ombrelli che sgrondano.
Pioggia d'estate con i tuoni che scoppiano improvvisi agli angoli delle
strade e scuotono i vetri delle finestre. Pioggia d'autunno, lenta,
pedante: racconta sempre le stesse storie quando si sdraia fuori del
portone. Scende dal cielo ed è già stanca.
Pioggia sui tergicristalli che danzano monotoni davanti agli occhi degli
automobilisti, là dove le luci del semaforo si frantumano e si
ricompongono ad ogni passata, avanti e indietro. Gocce che nascono
improvvise sui finestrini, immobili per un istante, che rotolano verso
il basso in una lunga riga, sopraffatte dalla verticalità. Vapor d'acqua
che si condensa sui vetri delle finestre per soddisfare la voglia di
nebbia di un inverno ormai dietro le nuvole.
Questa è la nostra pioggia, dentro la nostra città.
L'OLONA
L'Olona era una vena di sangue avvelenato, uno Stige urbano senza luce,
senza trasparenze. Correva da ovest a sud veloce ma senza impeto. Non
recava anime dannate ma acqua. Acqua sporca col sapore della chimica,
infettata dai tributi di mille fognature. L'avevano costretta sul fondo
di due argini di mattoni, perché non contaminasse la città. Ma il suo
odore forte di acido, saliva dal fondo come una vecchia maledizione.
Il fiume era entrato in città portando il dono di un'acqua fresca,
trasparente, che sapeva di rocce e di campagna. Pochi metri di quella
trincea le avevano tolto tutta la sua dignità fluviale. Mai più acqua
pulita, ma cloaca dove nessun raggio di sole poteva ormai strappare un
riflesso d'argento, dove una schiuma brunastra nascondeva sotto la sua
crosta la vergogna di un’immeritata metamorfosi.
Fuggiva via l'Olona da sotto il cavalcavia di Viale Cassala: il punto
esatto da cui avrebbe lasciato Milano per riguadagnare le campagne. Via
finalmente dagli occhi indiscreti che le stavano addosso, lontano dai
cenni di disapprovazione, fuori della percezione del disagio fisico che
trasmetteva alla città. Restava là soltanto il suo alito fetido, sempre
lo stesso giorno e notte, estate ed inverno. Come un marchio di
fabbrica, attraversava i finestrini aperti della filovia, s'incollava
tenace dentro i muri delle case.
L'Olona avrebbe finalmente ritrovato gli spazi liberi che aveva lasciato
prima di entrare a Milano, ma non la loro pietà. Anche la terra, anche
l'erba parevano ritrarsi all'avanzare delle sue anse melmose. Solamente
il correre dei ratti avrebbe celebrato il suo matrimonio col Lambro e la
sua morte nel Po.
LE RISORGIVE
Sgorgavano qua e là improvvise, come un gioco bizzarro della natura,
poco oltre la periferia meridionale della città. Di qua le ultime case,
le ultime vie, gli ultimi capolinea dei tram; di là pioppi, granoturco e
siepi di sambuco che galleggiavano sopra la bonaccia verde dei prati.
Piccoli vulcani liquidi, le risorgive erano ambasciatrici di un mondo
arcano e sconosciuto. Un universo d’argille ed antichi ghiaioni nascosto
nel buio di silenziosi anfratti. Misteriosi erano i percorsi attraverso
i quali l'acqua risaliva fino al mondo della luce. Puramente casuale il
luogo dove affioravano: in un prato, a lato di un sentiero o vicino ad
un cortile. Il termine del loro viaggio le vedeva tramutarsi in uno
stagno, una pozza verde di canne palustri ed alghe sfilacciate mescolate
all'erba dei campi.
Si poteva facilmente riconoscere una risorgiva: bastava osservare
l'acqua per ritrovare in essa una mobilità sconosciuta alle paludi. Un
movimento continuo che risaliva dal basso ed agitava la superficie. Una
vibrazione silenziosa che distorceva la visione del fondo. Bastava
immergerne la mano per percepire quell’instabilità che rendeva l'acqua
più viva e più densa, tremula come la gelatina. Sentivi la lieve
pressione della polla spingere il palmo della mano verso l'alto. Per
noi, bambini di periferia, la risorgiva rappresentava il mistero
dell'acqua che nasceva dal nulla. Apparizione fantastica che alimentava
i nostri sguardi incantati mentre le biciclette che ci avevano condotto
fin lì, riposavano sdraiate nell'odore forte dell'erba.
IL GOURGHETT'
Era quasi un nome comune il gourghètt. Esso identificava un certo numero
di rogge che, come un immensa raggiera si allontanavano dalla periferia
della città per perdersi in luoghi indefiniti, così come a volte
indefinita era la loro origine. L'unica cosa sicura era che in un punto
qualunque della periferia le avresti potute incontrare, ciascuna con un
proprio nome, molte con il medesimo: il gourghètt.
Il gurghètt di piazzale Negrelli era una di queste rogge. Nasceva da
un’apertura laterale nell'argine del Naviglio Grande, dal quale usciva
attraverso una bassa volta di mattoni, dilatandosi subito dopo in una
larga chiazza trasparente. Era soltanto un momentaneo attimo di riposo,
un profondo respiro per poi riprendere la fuga dal naviglio attraverso
le complici rive di pioppi e salici.
In questa pozza poco profonda sopravviveva una natura intatta, una
repubblica governata dai ragni d'acqua, dalle libellule e dal gracidare
delle rane.
Quel mondo viveva il suo tempo effimero compresso tra prati, ringhiere
rugginose ed i nuovi quartieri che si protendevano inarrestabili verso
l'ultima periferia. C'eravamo anche noi, bambini degli anni cinquanta,
in quel mondo. Vi arrivavamo a piccoli gruppi nei pomeriggi di un Luglio
carico di sole, quando i giorni di vacanza erano ormai divenuti
un’abitudine che si consumava lenta. Qualcuno aveva il costumino, altri
soltanto le proprie mutandine. Entravamo in acqua piano, con
circospezione, col respiro sempre più corto che sfuggiva ai brividi di
un'acqua gelata che risaliva inesorabile lungo i nostri fianchi.
Vita nella vita, nuovo nell'antico. Così eravamo noi dentro l'acqua del
Gourghètt. Noi nati con i piedi nell'erba ed i gomiti sui banchi di
scuola. Storditi tra il frinire delle cicale e la sirena della Richard
Ginori che chiamava i suoi operai, noi piccoli zingari figli di gente
comune.
Non lo sapevamo, ma i nostri strepiti, le nostre risate, l'eccitazione
di trovarci lì tutti assieme, scandivano le note di una marcia funebre
per quel piccolo mondo ormai condannato dal rumore sempre più vicino
delle scavatrici.
Non lo sapevamo, ma un giorno tutti noi saremmo usciti per sempre da
quella roggia, avremmo attraversato gli argini del naviglio verso i
nuovi quartieri ormai pronti per accoglierci. Nel nuovo ordine edilizio
ci sarebbe stata assegnata una finestra otto piani sopra l'asfalto e
cent'anni lontano dal Gourghètt.
I NAVIGLI
Vi puoi trovare dentro l'anima mistica della città, dove l'acqua scorre
piano, lenta più del tuo passo, lenta più dell'indifferenza delle auto
che scorrono al fianco degli argini. Un fantasma fuori posto e fuori
tempo che fluttua lungo le vecchie case, si guarda intorno, accarezza le
alghe verdi che ondeggiano dentro la sua acqua. Scivola sotto i piccoli
ponti gobbi come le schiene dei gatti, taglia quelli grandi, in ferro,
che esplodono sotto le ruote del treno, fugge veloce dai cavalcavia di
cemento, lunghi, desolati, tutti uguali.
Muri, finestre, parapetti, cieli, nuvole, ombre, accudiscono ai navigli
con l'amore di una vecchia cornice che getta la propria immagine dentro
le trasparenze tremule dell'acqua.
L'eterogenea moltitudine degli oggetti che la città ha rifiutato,
ritrova la propria pace sul fondo di un nuovo aldilà liquido, affrancati
dalla condanna degli uomini ed in perfetta armonia con ghiaia, sassi e
mattoni.
Natura ed artificio vivono e convivono rendendo i navigli un'entità
speciale: un canale domestico che conserva l'anima del fiume.
Nel fluire delle acque, presente e passato si confondono dentro la
nebbia densa del naviglio. Come un mago sapiente che gioca con i vapori
e gli aghi della brina, farà apparire dal nulla la prua silenziosa di un
vecchio barcone carico di sabbia che scivola lento al tuo fianco. Sarà
un attimo, poi la nebbia richiuderà il sipario, lasciandoti sospeso tra
l'illusione e la realtà di un inverno senza data.
13 gennaio 2009 |